Un sindacalista francese, Marc Blondel, leader storico dell’anti-comunista Force Ouvrière, amava dire: “Se l’istruzione costa tanto, figuriamoci l’ignoranza!”. Questa frase mi è venuta in mente alla fine della settimana scorsa leggendo documenti che potevano, a uno sguardo superficiale, sembrare contraddittori: da un da lato il rapporto annuale dell’Invalsi sui bassi livelli di apprendimento medio degli studenti italiani (rispetto a quelli del resto d’Europa) e sul differenziale profondo tra Nord e Sud e, dall’altro, le analisi della Fincantieri, dell’industria del lusso e dell’Unioncamere-Anpal (nonché quelle delle associazioni di medici, infermieri e personale ospedaliero uscite quasi contemporaneamente) sulle carenze attuali e prospettiche di personale specializzato. Questi studi sono stati diramati nei giorni stessi in cui nel Governo “del cambiamento” si litigava in materia del ruolo dell’istruzione nel progetto di legge sulle “autonomie differenziate”.
Il rapporto dell’Invalsi ribadisce, in modo forse più drammatico del passato, quanto documenta da anni: il sistema italiano d’istruzione non è neanche lontanamente all’altezza di ciò che dovrebbe essere in un Paese industrializzato in rapida trasformazione tecnologica; ogni anno ce lo ricorda anche l’Ocse pure nel suo snello Education at a glance. La Fincantieri ci dice che necessita di 6mila tecnici, ma in Italia non li trova. Il tessile-moda (comparto in cui l’Italia è stata all’avanguardia per decenni e dovrebbe restaci ancora anche se alcuni dei suoi gioielli hanno ora una proprietà straniera) dovrà effettuare 48mila assunzioni da ora al 2023 e già prevede difficoltà nel reperire il personale appropriato. Drammatico lo studio Unioncamere-Anpal: entro il 2022, le imprese italiane sono pronte a offrire posti di lavoro a 470mila tecnici, diplomati, e laureati nelle discipline Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics) e sanno che non sarà facile. Ciò avviene in un Paese in cui, secondo gli ultimi dati Istat, il tasso di disoccupazione giovanile sfiora il 32% e i ragazzi e le ragazze che non sono impegnati in istruzione, formazione o lavoro superano i tre milioni.
L’investimento a lungo termine in capitale umano dovrebbe essere priorità centrale di chi si fregia del titolo di “Governo del cambiamento”. Tanto che non pare lo sia l’investimento in capitale fisico. Ciò comporterebbe un’attività seria di manpower planning (previsione delle competenze e professionalità richieste) da parte del ministero del Lavoro e di riforma e adeguamento del sistema di istruzione e di quelli di formazione da parte del ministero dell’Istruzione e delle Regioni. L’argomento è appena sfiorato nel “contratto di governo”. E non sembra che in pratica riceva alcuna attenzione. Verosimilmente, quando il rapporto Invalsi (e gli altri documenti) non saranno più nella stampa quotidiana (presumibilmente già questa settimana), questi temi passeranno nel dimenticatoio, sussurrando, come veniva detto a Blondel, che istruzione e formazione già costano tanto.
Cerchiamo di rovesciare la domanda e chiediamoci non tanto quanto costa l’istruzione e la formazione, ma quanto rendono. Nella seconda metà degli anni Ottanta, elaborai, con George Psacharopoulos, allora alla London School of Economics, stime dei rendimenti finanziari privati (ossia agli individui) dell’istruzione universitaria in Italia: si viaggiava su tassi di rendimento finanziario attorno al 15% per chi completava il corso negli anni previsti. In queste e simili stime, i ricavi sono costituiti dal differenziale salariale (sull’arco dell’intera vita attiva) che si ottiene dal completamento del ciclo di studi. Più o meno nello stesso periodo, seguendo un metodo differente, Gilberto Antonelli dell’Università di Bologna ha stimato un tasso di rendimento finanziario del 5% per un anno di formazione.
Da allora molte cose sono cambiate: sono aumentati i numeri dei laureati e dei diplomati, c’è disoccupazione di lungo periodo anche tra chi ha studiato; c’è un forte appiattimento salariale. Per conto della Commissione europea, nel 2009 Angel de la Fuente (Instituto de Análisis Económico) e Antonio Ciccone (Universitat Pompeu Fabra) hanno costruito stime omogenee per i Paesi dell’Ue. In Italia l’istruzione presentava un tasso di rendimento finanziario privato del 6%. Era, quindi, un investimento di tutto rispetto.
Nel 2016, George Psacharopoulos e Harry Antony Patrinos hanno pubblicato, in una collana della Banca Mondiale, stime dei rendimenti privati (agli individui) e sociali (alla società) dell’istruzione per tutti i Paesi che fanno parte delle istituzioni create a Bretton Woods secondo un metodo omogeneo: per l’Italia i rendimenti privati si ponevano sul 9,5% e quelli sociali sull’8,5%. In breve, andare a scuola e in formazione non rende bene solo a chi ci va, ma ancora di più al resto della società.
Un passo significativo verso una stima, in termini di interdipendenze (ossia degli effetti degli “istruiti” sugli altri) viene da un’analisi pionieristica di Piero Cipollone e Alfonso Rosolia della Banca d’Italia, e il cui metodo può essere applicato ad altri settori del capitale umano (quale la salute) e del capitale sociale. Cipollone è, oggi, uno degli esperti (a titolo gratuito) presso il Gabinetto del Presidente del Consiglio: merita di essere ascoltato.