L’analisi offerta dall’Istat sull’andamento della produttività in Italia, pubblicata mercoledì, è passata in sordina, anche per i mass media che di solito prestano attenzione a questi indicatori. Ma la lettura andrebbe consigliata a tutti coloro, compresa una buona parte della classe dirigente politica, che continuano a ritenere che passata la bufera Covid – affrontata con abbondanti iniezioni di spesa pubblica – sia possa aprire per il nostro Paese le porte per un nuovo rinascimento economico. Gli indici della produttività nel corso del 2019, prima dell’emergenza sanitaria, sono tornati ad essere negativi (-0,4% per quella del lavoro e -0,8% per quella del capitale investito), segnando così un ulteriore allontanamento dalle medie degli altri Paesi sviluppati, in particolare quelli dell’area euro, dopo 5 anni di parziale ripresa sull’onda di crescita del Pil.
Nel comunicato l’Istat offre anche un’interessante lettura dell’andamento della produttività negli ultimi 25 anni, comparata con quella degli altri Paesi europei, che consente di comprendere l’entità e la natura dei ritardi del nostro sistema produttivo. Tra il 1995 e il 2019, la produttività del lavoro in Italia, misurata in termini di valore aggiunto complessivo suddiviso sul monte delle ore lavorate, è cresciuta con una media annua dello 0,3%, inferiore di 4 volte rispetto a quella dei Paesi dell’area euro. La produttività del capitale investito, misurata in termini di quantità degli investimenti in rapporto alla crescita del Pil, risulta persino negativa (-0,7%), per effetto di una crescita media del Pil (+0,7%) rispetto a quella del capitale investito.
Per l’effetto di queste tendenze, la produttività totale dei fattori richiamati, quella che misura l’indice del progresso tecnologico, l’efficienza delle organizzazioni del lavoro e dell’impiego delle risorse, umane, è rimasta sostanzialmente stagnante rispetto a 25 anni fa. Una stagnazione che si è riflessa sul prodotto interno pro capite e sull’andamento delle retribuzioni dei lavoratori. Tutto questo nonostante il contributo in termini di ore lavorate medie pro capite sia cresciuto dello 0,4% annuo, in linea con la media dei Paesi Ue.
L’istituto di statistica nazionale offre alcune spiegazioni di tutto ciò. La scarsa produttività del capitale investito viene collegata anche alla natura degli investimenti effettuati, in crescita dello 0,3% per i beni materiali e negativa per il 2,4% per la componente dell’informazione e comunicazione (ICT) e della ricerca e sviluppo (-1,9%): le componenti che hanno fatto la differenza nella crescita della produttività nei Paesi più sviluppati. Significativo il fatto che la crescita della produttività, iniziata nel 2014, dopo la terribile crisi economica degli anni precedenti e prima del brusco calo del 2019, sia coincisa con quella con del capitale investito in ICT del 4,1%, e di quello immateriale non ICT (+3,2%), che comprende gli investimenti in ricerca e sviluppo.
Ulteriori indicazioni provengono dalla valutazione degli andamenti settoriali della produttività, ampiamente positivi, con media del 2% annuo per il comparto ICT, superiore all’1% per le attività finanziarie, le assicurazioni, l’agricoltura, e dello 0,8% nelle attività manifatturiere. Ma largamente negativa per le professioni (-2%), per il complesso delle attività dei servizi sanitari, assistenziali, istruzione (-1,5%), per le costruzioni (-1,2%).
Interessante notare come la spinta all’incremento della produttività provenga dai settori che a vari titolo sono esposti o influenzati dalle dinamiche dell’internazionalizzazione dell’economia e, viceversa, risulti negativa in quelli relativamente protetti segnalando per gli stessi una rilevante inefficienza nell’impiego delle risorse. Si tratta di comparti di attività economiche che, sulla base delle comparazioni relative al mercato del lavoro con gli altri Paesi europei, risultano essere sottodimensionati come numero degli occupati ufficiali e che registrano ampie aree di lavoro sommerso.
Che indicazioni possiamo ricavare dalla lettura di questi dati? Anzitutto che i nostri ritardi, particolarmente rilevanti per la buona parte dei comparti dei servizi, non dipendono da fattori esterni legati alla competizione internazionale o dai vincoli di appartenenza all’area euro, ma essenzialmente dal sottoutilizzo delle risorse interne disponibili e dalla bassa qualità degli investimenti tecnologici e organizzativi in questi settori. Ne consegue che la ripresa dell’economia italiana, e dell’occupazione, dipenda fondamentalmente dalla capacità di modificare la qualità degli investimenti e dell’utilizzo delle risorse umane in questi comparti, Pubblica amministrazione compresa.
Buona parte della stagnazione dei salari, e delle varie criticità legate alla frammentazione dei rapporti di lavoro, alla sottoccupazione e al lavoro sommerso, particolarmente diffuse nei comparti dei servizi, sono da relazionare alla scarsa qualità e produttività delle organizzazioni del lavoro. Ne consegue che la possibilità di generare buone opportunità di lavoro con retribuzioni dignitose dipenderà principalmente dalla qualità delle innovazioni richiamate in precedenza, ivi comprese quelle finalizzate a migliorare le competenze dei lavoratori, e non da un’ennesima riforma dei rapporti di lavoro con l’introduzione di nuovi vincoli per l’utilizzo dei lavoratori.
Questi obiettivi potranno essere realizzati se le istituzioni, e la Pubblica amministrazione, saranno capaci di programmare l’utilizzo delle risorse disponibili in questa direzione, e di svolgere un ruolo trainante nella digitalizzazione dei servizi pubblici e privati con percorsi che favoriscano il ricambio imprenditoriale e professionale, allo stato attuale del tutto insufficiente e inadeguato sul piano delle competenze, e una mobilità sostenibile per i lavoratori coinvolti nelle riorganizzazioni delle attività produttive.