Negli ultimi 15 anni, le politiche redistributive del reddito prodotto in Italia sono state caratterizzate da una mole incredibile di risorse pubbliche destinate a contrastare il rischio di impoverimento delle persone e delle famiglie. La spesa trasferita dallo Stato all’Inps per finanziare le prestazioni finalizzate a tale scopo (sostegni al reddito per carenza di lavoro, integrazioni delle pensioni minime, anticipi dell’età pensionabile, bonus di varia natura per le famiglie meno abbienti, sgravi per le imprese per assumere disoccupati e sulle buste paga per aumentare i salari netti, assegno unico universale per i minori, redditi di inclusione e di cittadinanza) è aumentata da 74 a 164 miliardi di euro l’anno, per un volume complessivo aggiuntivo di oltre 550 miliardi. A queste cifre devono essere aggiunte quelle assunte direttamente dallo Stato (riduzione delle aliquote fiscali sui bassi redditi, contributi per le retribuzioni fino a 26 mila euro del bonus Renzi, riduzione delle bollette energetiche, bonus erogati sulla base dei redditi Isee durante la pandemia Covid).
L’assenza di un’anagrafe nazionale delle prestazioni assistenziali impedisce di conoscere gli importi erogati dagli Enti locali per esentare o o ridurre i costi di accesso ai servizi di trasporto, scuole materne, mense e tributi locali. L’utilizzo dei criteri Isee per stabilire il confine tra i beneficiari delle prestazioni e i contribuenti chiamati a finanziare le prestazioni è diventata ormai una consuetudine delle scelte politiche.
Un’analoga attenzione è stata rivolta dal sistema della contrattazione collettiva alla tutela dei salari minimi dall’inflazione con i rinnovi dei contratti nazionali, con un peso marginale della contrattazione salariale di secondo livello finalizzata alla redistribuzione dei risultati aziendali e territoriali.
Le politiche a favore dei bassi redditi hanno fatto un salto di qualità con l’introduzione degli sgravi dei contributi fiscali sulle retribuzioni fino a 35 mila euro anno e per limitare la rivalutazione piena delle rendite pensionistiche rispetto all’andamento dei prezzi a quelle inferiori ai 2.500 euro lordi mensili. Entrambe queste misure sono state di fatto sovvenzionate dal maggior gettito fiscale derivante dagli aumenti nominali legati all’inflazione (fiscal drag) sui redditi da lavoro dei dipendenti e dei pensionati e dalla mancata indicizzazione delle pensioni di importo superiore.
Nonostante ciò, l’efficacia di queste politiche redistributive è risultata pressoché fallimentare. Nel medesimo periodo il numero delle persone in condizioni di povertà assoluta è aumentato di circa 2,5 volte; il valore reale dei salari lordi è rimasto stagnante nel corso degli anni 2000 e si è ridotto di circa 7 punti negli anni recenti, in coincidenza della crescita dell’inflazione, nonostante la redditività delle imprese risulti superiore ai livelli registrati nel 2019, l’anno che precede la pandemia Covid. I provvedimenti citati hanno di fatto consentito di mantenere inalterati i livelli delle disuguaglianze tra i redditi dei ceti meno abbienti e quelli più elevati indice Gini), ma non hanno favorito la crescita del reddito e la riduzione dei livelli di povertà. Un caso unico nel contesto dei Paesi sviluppati e che merita una spiegazione.
La recente relazione del Governatore della Banca d’Italia Panetta sullo stato dell’economia nazionale mette in evidenza come, a parità di spesa sociale rispetto alla media europea (33% rispetto al Pil), la quota destinata ai sostegni ai redditi risulti superiore di tre punti. Equivalenti a quelli destinati dalla maggioranza dei Paesi aderenti alla spesa sanitaria, per il lavoro di cura e all’istruzione che hanno caratterizzato la crescita dell’occupazione, in particolare della quota dei giovani laureati e diplomati, e della componente femminile.
In parallelo è aumentato anche il numero delle persone assistite e interessate a mantenere in essere i sussidi pubblici, a integrarli con prestazioni sommerse e a sottodichiarare i redditi effettivi per poter beneficiare delle prestazioni pubbliche.
Sono tendenze che trovano riscontro nella riduzione del numero dei contribuenti attivi con redditi superiori ai 36 mila euro lordi (il 13,2% del totale che paga i due terzi delle imposte dirette) e che penalizzano la quota delle persone che nel mercato del lavoro possono svolgere un ruolo trainante per innovare le organizzazioni e migliorare la produttività e la qualità delle prestazioni.
Se le analisi sinteticamente illustrate hanno un fondamento, non appare azzardato affermare che le politiche messe in campo per contrastare la povertà, oltre a risultare poco efficaci, abbiano contribuito ad aumentare le criticità. Soprattutto, sono palesemente incompatibili con il fabbisogno di compensare la riduzione delle persone in età di lavoro e l’aumento del numero delle persone anziane a carico della collettività che si concretizzerà nei prossimi anni come conseguenza dell’invecchiamento della popolazione.
Diventa pertanto necessario riportare la spesa assistenziale alla sua funzione primaria di garantire un reddito dignitoso e l’accesso ai servizi alle famiglie prive di autonomia e di limitare l’erogazione degli altri sostegni al reddito alla perdita involontaria del lavoro per un periodo limitato e condizionati alla ricerca attiva del lavoro. L’obiettivo deve essere quello di aumentare di almeno due milioni il numero degli occupati e di incrementare il tasso di impiego di altre 2,5 milioni di persone che lavorano in modo precario.
Ma tutto ciò non basterà se non aumenteranno in modo significativo anche gli investimenti tecnologici e la produttività nel complesso del sistema produttivo. La possibilità di trasferire e di utilizzare le tecnologie nelle organizzazioni del lavoro dipende dalla quota dei lavoratori competenti in grado di farlo e dalla capacità di retribuirli in modo adeguato.
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