A prima vista i numeri contenuti nel comunicato dell’Istat relativo all’andamento del mercato del lavoro nel mese di novembre 2019 delineano uno scenario lusinghiero: il record storico del tasso di occupazione e del numero degli occupati, una crescita dei rapporti di lavoro che prosegue a ritmi superiori rispetto a quelli dell’economia e che riguarda in particolare il lavoro delle donne e i rapporti a tempo indeterminato.



Nel mese di novembre la crescita degli occupati (+41mila) ha consentito di recuperare gli andamenti negativi dei due mesi precedenti riportando in positivo (+18mila) anche l’andamento trimestrale. Ma sono soprattutto i dati tendenziali su base annua a consentire di fare un bilancio dell’anno trascorso. I 285mila occupati in più rispetto al novembre 2018 portano il complesso delle persone che lavorano a ridosso dei 23,5 milioni di occupati, a un tasso di occupazione del 59,4%, mai raggiunto nelle serie storiche analizzate dall’Istat, a partire dal 1977, con le metodologie uniformate a livello europeo. Livelli che consentono, anche se con ritardo rispetto agli altri Paesi europei, di superare di oltre 300mila occupati quelli del 2008, l’anno precedente la crisi economica. E di innescare un nuovo ciclo di crescita degli occupati con caratteristiche radicalmente diverse dal passato e che, nel bene e nel male, si riprodurranno anche nel breve e medio periodo.



Una prima caratteristica è rappresentata dalla costante dominanza dei rapporti di lavoro dipendente sul complesso della crescita degli occupati (+325mila unità nell’anno in questione) tale da compensare la costante diminuzione dei lavoratori autonomi. Analizzata sull’ultimo decennio, tale crescita è ormai prossima a un milione di nuovi occupati. Il calo del lavoro autonomo è da collegare in parte alla trasformazione dei rapporti di collaborazione in quelli di lavoro dipendente per effetto delle limitazioni introdotte dalle normative per l’utilizzo dei co.co.co. Ma alcuni fattori strutturali legati alle trasformazioni in atto nel commercio e nelle professioni fanno intendere che tale tendenza è tutt’altro che esaurita.



La ripresa, molto significativa, dei rapporti di lavoro dipendenti a tempo indeterminato, avvenuta anche nel corso dell’ultimo anno (+283mila), è certamente positiva. Ma va interpretata con giudizio, essendo anche congiunturalmente influenzata dall’effetto degli incentivi finanziari che sono stati messi a disposizione delle imprese per trasformare i rapporti a termine in tempo indeterminato. Le analisi fatte sull’efficacia di tali incentivi nel medio e lungo periodo dimostrano che una volta esaurito l’effetto iniziale la percentuale dei rapporti a termine sul totale dei rapporti di lavoro dipendente tende a riportarsi sui livelli precedenti alla loro introduzione.

Questa evidenza offre lo spunto per dare rilievo al contributo settoriale alla crescita degli occupati offerto per oltre il 70% dai comparti dei servizi con una particolare accentuazione di quelli: alberghiero, della ristorazione, del turismo e del lavoro domestico. Caratterizzati da una domanda di servizi, e da organizzazioni del lavoro, estremamente variabili e da un’elevata mobilità del lavoro.

Gli effetti di queste tendenze vengono riscontrati nella costante espansione della quota dei rapporti di lavoro a tempo ridotto e nella relativa stagnazione dei salari e dei redditi effettivamente percepiti che viene documentata con dovizia nelle rilevazioni trimestrali e annuali dell’Istat. In questi settori, oltre che per l’agricoltura e per le costruzioni, assicurare ai lavoratori un contratto e un salario contrattualmente regolare rappresenta un’assoluta priorità che precede anche la tradizionale valutazione della congruità del lavoro a termine o a tempo indeterminato.

Un’ultima considerazione va riservata alle trasformazioni in atto nella occupazione di genere e di età. Il recupero dell’occupazione femminile è costante, anche se il nostro tasso relativo rimane molto distante dalla media europea. Nell’ultimo anno due terzi dei nuovi occupati sono donne e la tendenza è destinata a proseguire con l’espansione dei settori dei servizi e con l’ingresso delle nuove generazioni. Prosegue invece la perdita di peso degli occupati nella classe centrale di età del mercato del lavoro, quella tra i 35 e i 49 anni (-128mila nell’ultimo anno), penalizzata dal lento ricambio generazionale (+118mila under 34 anni) e dall’incremento di 296mila over 50, che sta avvenendo da tempo a tassi superiori a quello dell’incremento dell’occupazione.

Gli effetti dell’impatto demografico sulla popolazione attiva, e dell’invecchiamento della stessa, possono essere corretti solo con interventi di medio lungo periodo. Tuttavia l’anno che è appena iniziato prospetta un potenziale incremento dei livelli di ricambio generazionale con la riapertura delle assunzioni nella Pubblica amministrazione. Su un altro fronte, quello dell’industria manifatturiera e delle esportazioni, si stanno però addensando nubi minacciose collegate alla riduzione della produzione industriale, alle difficoltà insorgenti nell’economia tedesca e per l’effetto della guerra sui dazi. Tutti fattori che generano incertezze che si possono riflettere anche sui consumi delle famiglie e sul complesso delle attività economiche. E con effetti che, purtroppo, possono accentuare le criticità del nostro mercato del lavoro.