Correva l’anno 1984 quando Antonello Venditti cantava che “Ci vorrebbe un amico qui per sempre al mio fianco, ci vorrebbe un amico nel dolore e nel rimpianto”. Tra i dolori rientrava e/o forse rientra ancora, quasi quarant’anni dopo, il doloroso momento della (difficile) ricerca di un lavoro?

Questa sembra essere, ahimè, la triste constatazione di uno studio dell’Inapp pubblicato nei giorni scorsi. Dal rapporto emerge, infatti, che ben il 23% degli occupati ha trovato lavoro tramite amici o parenti e il 9% tramite contatti stabiliti nell’ambiente lavorativo. In tutto i canali informali di ricerca hanno, insomma, collocato il 56% dell’occupazione degli ultimi dieci anni per un totale di circa 4,8 milioni di posti.



Lo studio sottolinea, inoltre, come la prevalenza dell’accesso all’occupazione tramite i canali informali rappresenti ormai un tratto strutturale del nostro mercato del lavoro producendo, peraltro, inevitabili, e rilevanti, distorsioni rilevanti qualità dell’allocazione “ottimale” delle risorse umane.



I dati mostrano, infatti, che i canali formali (con una riflessione a parte per i concorsi pubblici) intermediano le posizioni lavorative meno retribuite, prevalentemente non standard e caratterizzate da bassi livelli di istruzione. In assoluto, poi, il canale di ricerca cresciuto maggiormente negli ultimi dieci anni è l’autocandidatura, passato dal 13% al 18%, probabilmente anche in relazione al ruolo crescente dei social media e alla transizione digitale, anche per il recruiting, in corso.

È opportuno, per un’analisi più completa, sottolineare come l’occupazione generata dalle piccole imprese private (tra 1 e 5 e 6-10 addetti medi), che rappresenta il 40% del totale del settore privato, passa, per molti aspetti inevitabilmente, in maniera consistente attraverso l’intermediazione informale (in oltre il 60% dei casi).



Sebbene, inoltre, solo il 2% degli occupati dichiari di avere trovato lavoro tramite un’app o sui social network, lo studio Inapp segnala che l’intermediazione digitale, se non adeguatamente regolata, rischia di alimentare ulteriormente l’informalità dei rapporti. Basti pensare alla rapidità con cui si è passati dal 25% degli occupati che nel 2000 dichiaravano di aver fatto ricorso a Internet durante la fase di ricerca di lavoro, al 50% del 2010, fino al 75% del 2021.

La preoccupazione è, almeno secondo i ricercatori Inapp, che questa situazione possa alimentare ulteriormente la crescita del lavoro povero (il cd fenomeno dei “working poor”), riduca la possibilità di far valere i propri diritti e tutele rivendicando, ad esempio, buone retribuzioni e contribuisca alla (im)mobilità sociale frenando l’ascensore sociale e alimentando l’ingiustizia sociale.

La risposta, insomma, al tema delle grandi disuguaglianze sociali che caratterizzano i nostri tempi non può essere certo quella di cercare, magari su Instagram o TikTok, “un amico per dimenticare il male”.

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