Il bollettino rilasciato dall’Istat sull’andamento dell’occupazione nell’ultimo mese del 2019 ci consente di fare un bilancio provvisorio dell’anno trascorso e qualche ulteriore riflessione su quanto potrebbe avvenire nell’anno in corso. Nel mese di dicembre u.s.si è registrata una diminuzione di 75mila occupati rispetto al mese precedente, concentrata sui dipendenti permanenti e sul lavoro autonomo, rispettivamente -75mila e -16mila, e parzialmente compensata dalla crescita dei lavoratori dipendenti a termine.



Rispetto al dicembre del 2018 l’occupazione è aumentata di 136mila unità, risultato della crescita dei lavoratori dipendenti, +207mila, e della riduzione di quelli indipendenti, -71mila. Un incremento concentrato nella prima metà dell’anno trascorso, e da un secondo semestre caratterizzato da una serie altalenante di alti e bassi. L’incremento occupazionale interamente concentrato sui lavoratori dipendenti permanenti, +162mila, legata soprattutto alle trasformazioni dei rapporti a termine in quelli a tempo indeterminato in relazione agli incentivi introdotti con la legge di stabilità 2019. Nel mese di novembre 2019, per la prima volta, i lavoratori dipendenti hanno superato la soglia dei 18 milioni.



Nonostante la correzione negativa intervenuta nel mese di dicembre, le rilevazioni su base annua confermano una crescita dell’occupazione che si mantiene al di sopra di quella registrata sull’andamento del prodotto interno. Come abbiamo già sottolineato nei precedenti commenti sui dati Istat, questa tendenza è dovuta essenzialmente alle caratteristiche dei settori che fanno da traino della nuova occupazione, in particolare quelli legati ai servizi alla persona e al mercato, caratterizzati da un’elevata stagionalità della domanda e delle prestazioni. Con riflessi che si riproducono sulla quantità e sulla qualità dei contratti di lavoro in gran parte a termine e/o a orario ridotto. Non va sottovalutata, in questo contesto, l’importanza del lavoro sommerso, che nelle indagini Istat non viene stimata nelle rilevazioni mensili e trimestrali, ma con analisi periodiche specifiche che evidenziano un’elevatissima incidenza delle prestazioni totalmente o parzialmente irregolari nei settori che stanno incrementando l’occupazione.



Tutto questo produce delle conseguenze non marginali sulla tendenza dei redditi reali che sono in buona parte il riflesso delle caratteristiche della produzione e del mercato del lavoro. I divari tra le aree forti della nostra economia, avvantaggiate dalla rilevante presenza del settore manifatturiero e da una migliore qualità dei servizi, rispetto a quelle del Mezzogiorno, sono paurosamente in crescita. Il reddito pro capite di alcune regioni del Sud è sostanzialmente stagnante (19mila euro), poco più della metà di quello registrato nelle principali regioni del nord (36mila euro) che continuano a registrare tassi di crescita superiori a quelli del prodotto interno nazionale.

Per le stesse ragioni, si sta producendo un’analoga frattura nelle dinamiche intergenerazionali. La scarsa qualità della domanda di lavoro, e dei nuovi contratti attivati, si riflette inevitabilmente sulle generazioni che stanno entrando, o sono appena entrate nel mercato del lavoro.

Una distorsione che viene accentuata dai deficit del nostro sistema formativo e dalla bassa relazione dello stesso con le dinamiche del mercato del lavoro. L’incremento del tasso di occupazione nel corso dei 4 anni recenti per lo specifico degli under 34 anni ha contribuito in misura parziale al recupero dei giovani in cerca di occupazione e di quelli che non studiano e non lavorano. Tutto questo contribuisce ad accentuare l’invecchiamento della popolazione attiva che, per ovvie ragioni, avviene già spontaneamente in conseguenza di quello della popolazione in generale. E a svuotare progressivamente la coorte dei lavoratori collocata tra i 34-49 anni che rappresenta la spina dorsale di tutti i mercati del lavoro dei paesi sviluppati.

Cosa potrà accadere nel nostro mercato nel corso del 2020? Le previsioni sull’andamento dell’economia non sono affatto buone. In queste condizioni l’effetto della pandemia cinese rischia di rappresentare la classica pioggia sul bagnato. Alle difficoltà della produzione manifatturiera e delle esportazioni, già consolidate nelle stime negative sulla crescita del Pil, si aggiungerebbero quelle relative ai settori del turismo, dell’agricoltura e del commercio più esposti alle potenziali restrizioni che potrebbero derivare per le persone e per le merci . E stiamo parlando dei settori che hanno caratterizzato in questi anni la crescita della occupazione italiana.

Quanto sono attenzionati questi problemi nelle politiche economiche e del lavoro? I margini per favorire una ripresa degli investimenti infrastrutturali sono stati ulteriormente ridotti dall’esigenza di dover trovare nuove coperture per la spesa corrente già deliberata. La politica industriale, ammesso che quella italiana si possa definire tale, oscilla tra il prefigurare effetti miracolistici della nuova economia verde, dimenticando che tali effetti sono in gran parte il derivato degli investimenti in generale destinati a migliorare la qualità delle tecnologie e dei prodotti, e le nostalgie del ritorno dello Stato nella gestione delle imprese in difficoltà.

Le politiche del lavoro continuano a essere focalizzate sull’ennesima tentazione di pensionare anticipatamente i lavoratori anziani, ad affrontare le criticità con provvedimenti assistenziali e sul rimettere mano alle normative che regolano i rapporti di lavoro. E non mancano persino i progressisti illuminati, che pensano di affrontare le criticità del nostro mercato del lavoro con nuove iniezioni di immigrati a basso costo.

Difficile, veramente difficile, essere ottimisti sulle prospettive del nostro mercato del lavoro.