La notizia recente che l’occupazione a gennaio non è cresciuta e che la disoccupazione è calata non è di per sé una buona notizia. Istat conferma che la disoccupazione cala perché c’è un gruppo di disoccupati che si è ritirato dalla ricerca attiva del lavoro.
La stessa Istat ha aggiornato a gennaio 2022 gli indicatori relativi agli indici della retribuzione contrattuale per dipendente (totale dei settori economici per tutti i lavoratori esclusi i dirigenti) e l’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati.
Dato che entrambi gli indici sono calcolati con base 2015 uguale a 100, mettendoli sullo stesso grafico possiamo capire se rispetto al 2015 sono cresciuti di più i salari contrattuali o i prezzi dei beni che con quei salari si comprano. Le due curve sono riportate nel grafico qui sotto.
Tutto sommato i salari contrattuali si sono difesi bene fino a luglio 2021, poi la ripresa dell’inflazione, iniziata a settembre del 2020, ha superato la crescita salariale, il che equivale a una diminuzione dei salari reali.
Certo i salari contrattuali non sono i salari effettivi, che potrebbero essere più alti per effetto di accordi locali o individuali, oppure più bassi quando l’applicazione dei contratti viene elusa o ignorata. Anche l’inflazione, che viene calcolata sui prezzi di un paniere standard, potrebbe essere più alta o più bassa per ognuno di noi, visto che nessuno compera veramente il paniere standard tutti i mesi. Resta il fatto che questi indicatori di riferimento ci dicono, al di là delle impressioni e delle esperienze personali nostre e dei nostri conoscenti, come vanno le cose mediamente per l’intera economia.
La riduzione dei salari reali è un motivo che spinge le persone a ritirarsi dal mercato del lavoro?
Di per se stessa no, anche se alcuni lavoratori marginali che percepiscono salari già bassi potrebbero trovare che l’aumento dei costi rende sempre meno conveniente accettare posti di lavoro che si trovano, ad esempio, lontano da casa e che richiedono costi di trasporto elevati. La riduzione dei salari reali rende più rigido il mercato del lavoro delle mansioni meno pagate e spinge i lavoratori a elevate competenze che percepiscono salari medio-alti a difendere il loro potere d’acquisto cambiando lavoro e accettando posizioni meglio retribuite.
Con i salari reali in calo possiamo aspettarci più polarizzazione del mercato e un livello più alto di skill gap, vale a dire un numero maggiore di posizioni lavorative che risultano difficili da coprire anche se i saldi occupazionali complessivi non crescono.
Il problema non è destinato a rientrare nel breve periodo: Istat ricorda che “l’inflazione acquisita per il 2022 è pari a +3,4% per l’indice generale”. Si tratta di un valore alto, anche in presenza di una crescita del Prodotto interno lordo che sempre a gennaio 2022 Istat ha misurato in crescita tendenziale del 6,4% e con una “variazione acquisita per il 2022 … pari a +2,3%”.
La rigidità del mercato indotta dal divario prezzi-salari-crescita non si cura continuando a modificare il contenuto giuridico dei contratti, a tempo determinato o indeterminato che siano, e nemmeno introducendo salari minimi o continuando a pompare sussidi e bonus: tutte misure importanti e utili, ma di per sé non centrali rispetto alla necessità di una crescita sostenibile. Per una crescita sostenibile servono investimenti e conseguenti adeguamenti delle competenze che facciano crescere la produttività del lavoro assieme al prodotto.
Gli investimenti in tecnologie e le misure di politica attiva del lavoro previste dal Pnrr servono a spingere questa crescita, nonostante e dentro il periodo terribile che il mondo attraversa fra epidemie, guerre e instabilità economica. La responsabilità di un uso efficace di queste risorse non è solo dello staff della Pubblica amministrazione, ma anche del settore privato di tutto il Paese.
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