Il binomio sapere-potere è costitutivo di un mondo che, senza indugi, chiameremo mondo della Produzione. P maiuscola perché pervasiva e di formidabile potere radiante. La produzione (la poiesis greca) investe ogni cosa: la cultura, l’economia, l’amore, la guerra, la politica e il bricolage. È un modo, quello della produzione, che attraversa le ideologie e non si fa marcare stretto da ismi di nessuna specie.



Nel mondo della produzione, sapere è potenza. Per fare bisogna sapere. Sapere cosa e sapere come.

Potenza, poi, è condivisione. Non importa se obbligata o spontanea. Una potenza isolata è impotente, nega sé stessa. È immediatamente contraddittoria, direbbe il filosofo. Anche una conoscenza isolata è impotente perché non è in grado di incidere sui processi di creazione del valore economico e culturale.



Prima dell’avvento di questa nostra era digitale potere e conoscenza erano legati all’autorità di persone e comunità. Èlites più o meno coese erano gli snodi di una rete che alimentava la condivisione. L’era digitale, internet e i computer, ha prodotto un’altra rete attraverso la quale un patrimonio di conoscenze e di informazioni viene condiviso istantaneamente all’interno di comunità virtuali.

Questa capacità di far esplodere sia i contenuti che le modalità della loro ricognizione porta con sé una valenza spersonalizzante. La conoscenza non è più soggettiva ma sempre più desoggettivizzata, dispersa e anonima. Recuperare un’informazione in rete equivale a relazionarsi con il vasto e l’impersonale; il legame tra sapere e persona, infatti, sia singola che comunitaria, si va sciogliendo.



Se il sapere è potere e se il potere è la capacità di trasformare il reale, di farlo oscillare tra un nulla e un nulla, allora tecnica e tecnologia sono l’espressione più alta di questa capacità. La tecnica, si sa, funziona. E nel vasto regno del funzionare nessuno è più chiamato ad agire ma solo a realizzare in modo condiviso. In altre parole, assistiamo al passaggio della conoscenza da un mondo riferito alla soggettività a uno riferito alla funzione, nel quale la conoscenza dei fatti e la capacità di declinare tale conoscenza nel senso dell’utilità per generare trasformazioni socioeconomiche (Rapporto Istat sulla conoscenza, 2018) non è più prerogativa di comunità di individui (si pensi ai celeberrimi distretti industriali) ma funzione della capacità di accesso alle tecnologie.

D’altra parte, lo specifico della cultura della condivisione che caratterizza l’era digitale se, da una parte, democratizza l’accesso alla conoscenza, dall’altra mina la profondità e la qualità dell’apprendimento. Nel contesto della produzione, la scienza e la tecnologia non possono essere viste solo come strumenti di potenza, ma anche come ambiti di responsabilità. La capacità di creare e manipolare il reale comporta obblighi etici verso la società e l’ambiente, dove l’etica va intesa in senso etimologico, come modo di stare al mondo. Ogni innovazione tecnologica deve essere perciò valutata non solo per la sua efficacia ma anche per il suo impatto a lungo termine e per ciò che comporta in termini di mutamento percettivo in un individuo radicalmente trasformato nel suo rapporto con il potere e la conoscenza grazie alla formidabile mediazione della tecnica, intesa sia come specifica espressione del raziocinio umano sia come apporto dei mezzi a disposizione (tecnologia). La conoscenza, da attributo personale legato all’esperienza individuale, è oggi esternalizzata nei dispositivi e nelle reti digitali. La transizione verso una conoscenza digitalizzata richiede una riflessione sulla natura dell’apprendimento e della memoria. La mente umana non è progettata per competere con la velocità e la capacità di memorizzazione delle macchine, ma può eccellere in ambiti dove la creatività e l’intuizione sono fondamentali.

Tutti questi discorsi ci permettono di definire alcuni aspetti di quel gesto psicologico che è l’impossessarsi di un’informazione. La spersonalizzazione insita nell’atto di recuperare un’informazione nel web non si mostra solo dal lato del sapere diffuso, ma anche dal lato di chi quel sapere lo vuole fruire.  L’incessante produzione di dati e informazioni è un formidabile trascinarsi dal nulla al nulla, dentro un mondo che è assoluta novità e quindi assoluta orfanità. Il sapere è di tutti quindi di nessuno. Lo stesso fenomeno accerchia i fatti che prendono a migrare da un polo all’altro del reale, disponibili a ogni interpretazione, mossi da una volontà che assicura agli orfani erranti la loro razione quotidiana di libertà.

In un tempo che verrebbe da chiamare preistorico – visto che la storia si fa iniziare tradizionalmente con la scrittura, oggi siamo in presenza di una nuova storia che nasce con i primi vagiti dell’informatica – misurare la conoscenza significava indagare un universo di riferimento fatto di semplici cittadini piuttosto che di testimoni privilegiati, imprenditori, medici, studenti e chiedere loro se sapevano la tal cosa. Misurare la conoscenza di un fatto significava indagare una popolazione, vale a dire una comunità di soggetti, con una distinta personalità, più o meno colti, competenti, reticenti… Ma oggi? Oggi, nel tempo storico del codice binario che ha travolto e fatto esplodere ogni sapere, ha ancora senso indagare una certa popolazione eleggendola a criterio statistico, indicatore prossimo alla verità? In che modo dobbiamo considerare i soggetti, le persone, gli individui? In che modo giudicare la conoscenza che esprimono quando un questionario online (strumento sempre più egemone per misurare la conoscenza di un fatto, per chiedere un’opinione) è un minuscolo grimaldello che giace accanto a un intero arsenale di strumenti da scasso a portata di clic?

Abbiamo fatto una prova. Gli osservatòri, dal tempo immemore che ha preceduto l’era digitale, sono serviti a tracciare nel tempo l’evolversi di conoscenze e percezioni. Si inviavano lettere, ancora, confidando nel caso, dunque; o si contattava al telefono la popolazione, riverbero campionario e rappresentativo della democrazia trionfante, e si chiedeva a un perplesso imprenditore: lei sa dirmi qual è stato il tasso medio di inflazione lo scorso anno? Questi, con la cornetta in mano (quando c’erano ancora le cornette) faceva appello alla memoria. Se informato e competente, poteva sibilare all’intervistatore la cifra ufficiale, oppure tradire imbarazzo nello scoprire che non lo sapeva o non lo ricordava.

Oggi il nostro imprenditore riceve il suo bel questionario online e sa di disporre di tutte le informazioni di cui necessita a portata di clic. Uno o più clic. Bilanci consuntivi e previsionali, import, export, ricavi e, certo, basta aprire una finestra, anche il tasso medio di inflazione dello scorso anno.

Noi di Demetra opinioni.net abbiamo costruito un panel di imprenditori, si chiama BPI, Business Panel Information. Ogni mese tormentiamo un campione di 200 imprenditori con alcune domande sulla congiuntura economica. Ci piace. Nell’ultima indagine, dopo le domande di rito, abbiamo chiesto, così, a bruciapelo: ci sa dire qual è stato il tasso medio di inflazione nel 2023? E abbiamo spiato quanti ricorrevano al clic.

C’è una tecnica utilizzata nelle indagini online in grado di stimare con una certa precisione se un rispondente abbandona la pagina principale, quella del questionario, per aprire un’altra finestra. Su 200 imprenditori interpellati 149 sono rimasti sulla pagina del questionario. Definiamo questo gruppo “Ottimisti della volontà” perché ricordano qual è stato il tasso medio di inflazione, o credono di ricordarlo. 51 imprenditori, invece, hanno aperto la finestra e hanno chiesto al web un aiutino. Chiamiamo questo secondo gruppo “Pessimisti dell’intelligenza”.

Figura 1: distribuzione ‘Ottimisti della volontà’ (in blu) e ‘Pessimisti dell’intelligenza’ (in rosso)

I 149 Ottimisti della volontà hanno cannato di brutto: 8,5% il dato medio delle risposte contro un più lusinghiero 5,7% offerto dall’Istat. I 51 del gruppo Pessimisti dell’intelligenza sono andati meglio: 6% come dato medio.

Figura 2: Inflazione media indicata dagli ‘Ottimisti della volontà’ (in blu) e dai ‘Pessimisti dell’intelligenza’ (in rosso). La linea verde rappresenta il dato reale riportato dall’ISTAT

La domanda allora è: perché fare appello a un sapere tradizionale quando questo sapere è morto e sepolto? Perché non usare la memoria vasta e precisa del web e ostinarsi a maltrattare la nostra, piena di falsi ricordi e di bugie? Lasciamo al cervello l’immaginazione e poi, per allenare memoria e ragionamento, non ci sono le parole crociate? Ma la competenza, signori, nell’età della tecnica è una cosa seria.

La discrepanza tra l’inflazione percepita da gruppo Ottimisti (8,5%) e quella reale (5,7%) è piuttosto significativa. Questo potrebbe indicare una percezione distorta dell’inflazione da parte degli imprenditori, forse influenzata da esperienze personali, notizie sensazionalistiche o aspettative pessimistiche sull’economia. Naturalmente, anche gli organi statistici ufficiali possono sbagliare o misurare cose che non riguardano direttamente gli imprenditori. Per esempio, il cosiddetto tasso d’inflazione riguarda le famiglie di operai e impiegati.

Invece, gli imprenditori che hanno verificato il dato online hanno riportato il tasso di inflazione ufficiale con precisione. Vogliamo far capire che è importante utilizzare informazioni accurate e aggiornate per fare valutazioni economiche corrette. La differenza tra chi si affida alla memoria e chi cerca attivamente informazioni può anche indicare diversi atteggiamenti verso l’aggiornamento e la ricerca di dati, attitudini che potrebbero riflettere diversi livelli di competenza e di istruzione. Ci pare interessante rilevare i seguenti punti:

  1. l’emergere di un gruppo di rispondenti che fa riferimento direttamente al web;
  2. la distorta percezione dei dati basata sulla memoria;
  3. la conseguente necessità di integrare le tecnologie online nella normale prassi lavorativa;
  4. la necessità di modificare l’approccio alle indagini sulla conoscenza e la percezione tenendo conto del punto 1.

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