I numeri diffusi dall’Istat sono avvilenti, ma non ci rassegniamo. Le donne occupate sono 9 milioni 650mila, cioè il 50,5% (e altrettante quelle senza un lavoro), gli uomini 13,1 milioni, vale a dire il 67,6%. A trainare la tiepida ripresa occupazionale italiana sono i contratti a termine anche e soprattutto per le donne e i lavoratori più giovani, mentre a bilanciare in negativo ci sono gli autonomi e gli ultracinquantenni che perdono posizioni.



Il tasso di disoccupazione scende di un soffio al 9% (-0,1%) e in maniera più consistente tra i giovani, attestandosi al 26,8% (-0,7%). Anche la sostanziale stabilità del numero di inattivi è frutto della crescita osservata per uomini e ultra 50enni e della diminuzione tra donne e persone con meno di 50 anni di età.



Il tasso di occupazione complessivo è stabile al 59%, tornato ai livelli pre-Covid, quello di disoccupazione è inferiore di 0,6 punti rispetto ai livelli pre-pandemici, ma quello di inattività è salito dal 34,6% al 35,1%. Bisogna capire se l’occupazione temporanea di donne e giovani si stabilizzerà nel prossimo futuro, quando verrà meno l’incertezza legata alla pandemia che ancora ci attanaglia. Quindi, bisogna tenere l’attenzione sulle lavoratrici e i lavoratori a tempo che hanno bisogno di stabilizzazione o di politiche attive, per garantire a tutti diritti, tutele, formazione e la perdita di 320mila occupati tra gli e le indipendenti rappresenta un danno all’economia e alla ripresa. E la tiepida ripresina dimostra che  l’aumento dell’occupazione è insufficiente e che la precarietà è la scelta quasi assoluta delle imprese. 



L’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp) ci dice che, nel flusso delle nuove assunzioni, quelle a tempo indeterminato per gli uomini sono il 18%, mentre quelle a tempo indeterminato per le donne sono solo il 14,5%; e che a Sud è più difficile per le donne ottenere un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Cresce anche il numero di donne assunte con contratto a tempo parziale, e – poiché sappiamo che si tratta in buona parte dei casi di part-time involontario -questa non è una buona notizia. 

Una parziale risposta al divario di genere può venire dal disegno di legge fiscale, che reca una misura di equità per le donne. Com’è noto il cumulo dei redditi familiari previsto nel nostro ordinamento disincentiva l’occupazione femminile, che di regola costituisce la fonte del secondo reddito familiare. Agendo sul cuneo fiscale, con una riduzione dell’aliquota per il secondo percettore, la norma contenuta nel ddl in discussione in Parlamento delinea un sistema di detassazione selettiva sostanzialmente mirata a incentivare l’offerta di lavoro e la partecipazione al mercato del lavoro dei giovani e dei secondi percettori di reddito, cioè principalmente delle donne. Intanto, però, l’assegno universale che dovrebbe essere erogato a fine marzo e di cui abbiamo ampiamente scritto, ha bloccato le detrazioni previste dalla precedente normativa. Ci chiediamo se abbiamo motivo di attenderci una buona risposta positiva dell’offerta di lavoro femminile alla riduzione dell’Irpef, ma siamo anche consapevoli che senza politiche attive concrete verso le donne, solo i fatti possono confermare queste attese. 

I fatti concreti appunto. Il 18 novembre scorso è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la legge162 che introduce modifiche in materia di pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo, rispondendo a valori sanciti e perseguiti a livello europeo. Sono due le finalità principali: migliorare la trasparenza retributiva e incentivare le imprese al perseguimento della parità di genere attraverso l’istituzione di una certificazione che apre la via ad alcune forme di premialità. La trasparenza retributiva, e di tutti i meccanismi sottostanti (per esempio, criteri di selezione nelle assunzioni, nella formazione e nelle progressioni di carriera) può certamente aiutare a individuare e perseguire situazioni di discriminazione, ma prima di tutto servirà alle imprese assistenza tecnica perché va ricordato che la parità di genere nel lavoro non può essere ottenuta da una singola misura rivolta alle imprese (con oltre 50 dipendenti), ma richiede una combinazione di azioni in grado di incidere sulle possibili discriminazioni basate sul sesso che si manifestano attraverso l’operare del mercato del lavoro. Queste dipendono da fattori difficilmente aggredibili a livello di singola impresa e richiedono quindi interventi di sistema e responsabilità operativa di tutta la comunità.

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