In un secolo, tra l’Unità d’Italia e la metà del XX secolo, sono stati 26 milioni i connazionali che sono espatriati per cercare lavoro in ogni angolo della Terra. Oggi, nel nostro Paese sono residenti 5,1 milioni di stranieri di cui 3,8 milioni extracomunitari. Gli stranieri occupati sono circa 2,5 milioni, molti dei quali sono indispensabili per garantire l’offerta di lavoro in taluni settori. Come ha rilevato l’Osservatorio di Itinerari previdenziali, la popolazione di origine straniera residente in Italia, nel periodo corrispondente al blocco delle quote per i nuovi ingressi per motivi di lavoro (2011-2016), è aumentata, nonostante il blocco stesso, di circa 1,4 milioni di unità. Ovvero di 2,2 milioni di persone se si tiene conto del fatto che, nel frattempo, circa 800mila stranieri, minori compresi, hanno acquisito la cittadinanza italiana.



Questo aumento è dovuto principalmente, per la parte dei cittadini extracomunitari, all’incremento delle ricongiunzioni familiari, alle nuove nascite e in parte minoritaria per motivi di lavoro. Per i cittadini neocomunitari, l’incremento è principalmente dovuto agli effetti della libera circolazione anche per motivi di lavoro. La quota dei lavoratori neocomunitari, negli anni presi in considerazione, ha rappresentato stabilmente circa il 40% delle attivazioni dei nuovi rapporti di lavoro che hanno riguardato cittadini stranieri. Questa tendenza si è inevitabilmente riflessa anche sulla crescita delle persone in età di lavoro. Nel medesimo periodo considerato, gli occupati stranieri sono aumentati di 516mila unità (oltre 600mila se rapportati all’intero periodo della crisi economica, 2008-2014), mentre si registrava in parallelo una diminuzione di circa 1,4 milioni di occupati italiani.



La crescita dell’occupazione immigrata, a fronte di un calo di quella autoctona, rappresenta un caso unico nel panorama dei grandi Paesi europei di accoglienza, dove l’occupazione e la disoccupazione dei lavoratori autoctoni e degli immigrati hanno registrato un andamento analogo, e con il tasso di occupazione dei lavoratori nazionali che si è costantemente mantenuto al di sopra di quello degli immigrati. Ma l’Italia, in tempi più recenti, è divenuta un Paese da cui si emigra. Nel decennio 1999-2008, ha reso noto l’Istat, gli italiani che hanno trasferito la residenza all’estero sono stati complessivamente 428 mila a fronte di 380 mila rimpatri, con un saldo negativo di 48 mila unità.



Dal 2009 al 2018 si è registrato un significativo aumento delle cancellazioni per l’estero e una riduzione dei rientri (complessivamente 816 mila espatri e 333 mila rimpatri): di conseguenza, i saldi migratori con l’estero dei cittadini italiani, soprattutto a partire dal 2015, sono stati in media negativi per 70 mila unità l’anno. Significativi anche i dati sui laureati che lasciano il nostro Paese: in dieci anni sono stati 182 mila. Solo nell’ultimo anno sono emigrati 29 mila persone con un aumento del 6% che sale addirittura al 45% se si considerano gli ultimi 5 anni. 

Non c’è dubbio: si tratta di un capitale sociale che può essere perduto, ma che potrebbe rientrare arricchito di esperienze compiute in altri Paesi. Soprattutto quando i giovani laureati si recano in altri Paesi dell’Unione. Peraltro – la circostanza è singolare se la confrontiamo con ciò che viene “percepito” – secondo i dati Istat riguardanti il rapporto tra iscrizioni e cancellazioni anagrafiche della popolazione residente nel 2018, risulta che, mentre aumentano gli italiani che scelgono di risiedere all’estero, per la prima volta in 5 anni, diminuiscono le immigrazioni nel nostro Paese, con un netto calo soprattutto degli arrivi dall’Africa. È pure interessante osservare da quali regioni provengono gli italiani che decidono di immigrare. La regione da cui se ne vanno più concittadini, in valore assoluto, è la Lombardia con un numero di cancellazioni anagrafiche per l’estero pari a 22 mila (di cui 6,5mila a Milano), seguono Veneto e Sicilia (entrambe oltre 11 mila), Lazio (10 mila, di cui 8mila a Roma) e Piemonte (9 mila, di cui 4mila a Torino).

In termini relativi, rispetto alla popolazione italiana residente nelle regioni, il tasso di “emigratorietà” più elevato si ha in Friuli-Venezia Giulia (4 italiani su 1.000 residenti), Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta (3 italiani su 1.000), grazie anche alla posizione geografica di confine che facilita i trasferimenti con i Paesi limitrofi. Tassi più contenuti si rilevano nelle Marche (2,5 per 1.000), in Veneto, Sicilia, Abruzzo e Molise (2,4 per 1.000). Le regioni con il tasso di “emigratorietà” con l’estero più basso sono Basilicata, Campania (Napoli 3,5mila) e Puglia, con valori pari a circa 1,3 per 1.000. In sostanza, diversamente da quanto si crede (e a parte il caso della Sicilia), gli italiani che vanno a risiedere all’estero (quasi sempre per lavorare) provengono dalle regioni più ricche del Paese e dove è minore la disoccupazione.

In questi giorni si è aggiunta una domanda assillante: che cosa succederà, dopo la Brexit, ai 700 mila italiani che risiedono e lavorano in Gran Bretagna? Oggi, costoro sono cittadini comunitari titolari degli stessi diritti degli inglesi, dotati di libertà di movimento, di accesso al mercato del lavoro e ai servizi sociali del Paese che li ospita. Dopo la Brexit diventeranno stranieri, sottoposti allo status previsto per loro dalle leggi britanniche e ai relativi limiti. Entrare e risiedervi sarà ancora più complicato. I premier di Sua Maestà Britannica, venuti in visita in Italia durante il tormentone della Brexit, hanno più volte tranquillizzato il Governo italiano rispetto al trattamento riservato ai nostri connazionali. Guai a dimenticare però che uno dei temi – al centro dello sciagurato referendum in cui vinse il “leave” – fu proprio la presenza degli stranieri (con la pelle bianca) che rubano il lavoro e si avvalgono dei servizi sociali. E quegli “stranieri” non venivano sui gommoni dall’Africa, ma dagli altri Paesi europei.

La Gran Bretagna è avvezza a ospitare stranieri, ma è un conto che provengano dalle ex colonie, un altro se arrivano dalle nazioni europee. Non a caso Theresa May ebbe a dichiarare che, grazie alla Brexit, d’ora in avanti nessun europeo sarebbe stato più favorito rispetto a un cittadino del Commonwealth. I sovranisti di casa nostra dovrebbero comprendere e giustificare questa scelta politica. Quando si proclama “prima gli italiani” non c’è da stupirsi se qualcuno replica “prima gli inglesi”.