Itinerari Previdenziali ha presentato ieri il suo annuale rapporto sulla previdenza pubblica nel Italia, che ha come riferimento il 2021. Il rapporto è denso di informazioni e di valutazioni, e restituisce un’immagine di un Paese che richiede interventi urgenti.
Innanzitutto vale la pena di iniziare sfatando un mito: quello che vedrebbe l’Italia come un Paese che non dà sufficiente attenzione e risorse al welfare. I dati riportati parlano chiaro: l’Italia è al terzo posto in Europa per il rapporto fra spesa sociale e Pil. E il welfare, in parte, funziona. Ad esempio, il sistema sanitario italiano funziona bene; una dimostrazione indiretta viene dalle statistiche demografiche che il rapporto cita: la percentuale di over 65 sulla popolazione è la più alta in Europa, al 24%, ma arriveremo nei prossimi anni fino al 35%.
Diciamo che le notizie positive hanno conseguenze negative. La prima è che il rapporto fra attivi (che pagano i contributi) e pensionati (che li usano) è basso. Ci sono 1,42 attivi per ogni pensionato, gli esperti di Itinerari previdenziali sostengono che il rapporto dovrebbe salire fra 1,6 e 2.
La seconda conseguenza negativa è che su 16 milioni di pensionati, 7 milioni sono totalmente o parzialmente assistiti, vale a dire non hanno pagato tutti i contributi necessari a maturare la pensione pur piccola che prendono e sono quindi in carico alla fiscalità generale. Il fatto che tanti pensionati siano in tutto o in parte in carico alla fiscalità generale e quindi abbiano pagato pochi o nulli contributi ci fa anche intuire che abbiano pagato poche o nulle tasse. Il rapporto ci ricorda che il 57% dei contribuenti paga poco più dell’8% dell’ammontare complessivo dell’Irpef. Il grosso delle entrate grava sulle spalle di chi dichiara più di 35.000 euro lordi (circa 2.000 euro netti al mese, non parliamo di ricchi…).
Le cifre complessive della spesa assistenziale sono impressionati: essa ammonta a 144 miliardi, ai quali vanno sommati 11 miliardi di interventi sociali pagati dagli enti locali. La spesa assistenziale nel 2008 ammontava 73 miliardi. Quindi dal 2008 al 2021 la spesa è raddoppiata, ma allo stesso tempo sono raddoppiati anche tutti gli indici di povertà! Siamo un Paese che incentiva di fatto la vita basata sul sussidio e più soldi ci mette, più persone attira nella condizione di povertà.
Negli ultimi anni peraltro si è fermata l’indicizzazione delle pensioni più alte (per capirci, le pensioni di chi ha pagato i contributi) per allargare a dismisura le spese assistenziali, dando il chiaro messaggio che chi paga è un fesso. Il professor Brambilla ha peraltro ricordato, nel corso della conferenza stampa di presentazione, che la proposta di Forza Italia di portare a mille euro al mese le pensioni minime porterebbe in pochi anni l’Inps al fallimento, dando un segnale ulteriore della convenienza a non pagare i contributi pensionistici.
L’Italia è un Paese che penalizza il lavoro a favore della povertà. Com’è potuto accadere questo disastro?
Le norme e la politica spesso seguono e alimentano processi in atto nella società. A un certo punto l’affermazione della propria capacità sociale si è spostata dal lavoro inteso come azione che crea valore per qualcuno, e quindi sviluppo e reddito, alla concezione del lavoro come strumento per partecipare alla distribuzione di una ricchezza preesistente, indipendentemente dalla sua creazione, della quale non ci si ritiene più responsabili.
In questa situazione il lavoro, anzi: questa caricatura del lavoro, si trova a competere con la speculazione finanziaria, con la lotteria, con gli espedienti per vivere ai limiti della legalità, con la percezione dei sussidi di Stato, tutti strumenti percepiti come meno rischiosi e faticosi, che generano meno obblighi individuali e meno legami. Le ideologie sul reddito minimo incondizionato e la pandemia hanno travolto qualsiasi remora all’uso politico del sussidio ai fini di raggranellare consensi, dando una parvenza di dignità politica al disimpegno con se stessi. Ma tutte queste azioni assistenziali non sono sostenibili.
Certo, è necessaria un’azione politica per tornare a incentivare il lavoro e penalizzare la vita nei sussidi, ma serve anche un’educazione che riporti le ragioni del lavoro come unico strumento di progresso personale e collettivo. Nessuna delle due missioni ha esito scontato.
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