Sembrano ferocemente distanti, ma la destra e la sinistra italiana sull’immigrazione compiono lo stesso errore: fanno coincidere il fenomeno con quello degli sbarchi irregolari per trarne conclusioni fuorvianti. Anche se formalmente di carattere opposto. Lo specifico dei flussi migratori nel Mediterraneo, nonostante il notevole incremento, circa 600mila ingressi, intervenuto tra il 2014 e il 2017, ha inciso solo marginalmente sulla popolazione immigrata residente. E solo di un misero 0,26% sulla popolazione attiva. Complice la fuoriuscita spontanea dal territorio nazionale di oltre la metà degli immigrati in questione.
Eppure, nonostante ciò, intorno alla letteratura sull’invasione ineluttabile dovuta all’esplosione demografica del continente africano, all’incremento delle persone disperate in fuga dalle guerre, dai disastri ecologici, e dalla povertà, si è sviluppata tutta la polemica che ha segnato la formazione degli schieramenti politici nazionali, e in particolare di quelli italiani. Pazienza se gli studi sulla materia non confortano affatto questi assunti.
Solo una parte marginale, non la più povera e nemmeno di quella in fuga dai conflitti, rifluisce in Europa. Tantomeno quella approdata in Italia attraverso il corridoio libico, in buona parte proveniente dalle nazioni centro- e nord- africane. I luoghi comuni si sprecano. Vediamone alcuni.
Fior di analisti, o presunti tali, si sforzano di evidenziare che il nostro Paese ha un fabbisogno di flussi d’ingresso di nuovi immigrati per compensare il nostro declino demografico e per reggere i costi delle prestazioni pubbliche. Gli indicatori demografici sono certamente negativi e meritano di essere affrontati con decisione, soprattutto sul fronte della ripresa delle nascite. Ma la sostenibilità dei flussi di immigrazione non dipende dalla demografia, ma dalla concreta occupabilità delle persone che fanno il loro ingresso nel nostro Paese. Basta osservare gli indicatori statistici per evidenziare come nel decennio recente sia drasticamente aumentato il numero delle persone in cerca di lavoro, o disponibili a farlo a determinate condizioni, con bassa qualificazione. Rispetto a dieci anni fa sono passate da 4,5 a 5,8 milioni. E la crescita è dovuta in buona parte, circa 600mila unità, anche a quella dei migranti in cerca di lavoro o potenzialmente attivabili.
Nell’ultimo decennio, nonostante il formale blocco delle quote di ingresso per motivi di lavoro, la popolazione immigrata è aumentata di oltre 2 milioni di persone, per via della liberalizzazione degli ingressi dai Paesi neocomunitari, del forte aumento delle ricongiunzioni familiari e delle nuove nascite. Oltre 800mila, tra cui circa 350mila minori, hanno acquisito nel frattempo la cittadinanza italiana. Specularmente è peggiorata drasticamente la condizione di reddito dei migranti regolarmente residenti. Per via della riduzione degli orari di lavoro ufficialmente lavorati e per l’incremento delle persone inattive a carico.
Buona parte del deterioramento della qualità dei rapporti di lavoro, e della crescita del lavoro sommerso, avvenuta nel decennio recente coincide con i settori e le mansioni svolte dagli immigrati. In particolare nei servizi alla persona, nell’alberghiero, nella ristorazione, nell’agricoltura e nella logistica. Secondo l’Istat, il 30% dei nuclei composti da immigrati versa in condizioni di povertà assoluta. Sommando a questi nuclei quelli a forte rischio di impoverimento, la percentuale arriva sui due terzi del totale dei nuclei in questione. In pratica tutto l’incremento della povertà assoluta nel centro-nord avvenuto negli anni successivi al 2010.
Come questa condizione possa aiutare a sostenere gli equilibri delle prestazioni sociali non è dato sapere. Nonostante da parte della sinistra politica si continuino a propagandare le analisi farlocche che dimostrerebbero saldi positivi tra i contributi previdenziali e fiscali versati dagli immigrati e gli importi erogati a loro favore, per servizi e prestazioni sociali, dallo Stato italiano. L’incremento della povertà assoluta è diventato il pretesto per il governo giallo-verde per introdurre il reddito di cittadinanza, ma curiosamente ne sono stati esclusi dai benefici e dalle politiche attive del lavoro proprio gli immigrati.
Le trasformazioni succintamente descritte sono avvenute in coincidenza con un tasso di occupazione generale che si mantiene di 10 punti, equivalenti a poco meno di 4 milioni di occupati, al di sotto della media degli altri Paesi aderenti all’Ue. Buona parte dei problemi del nostro mercato del lavoro, collegabili alla crescita dei contratti a orario ridotto, alla sotto occupazione, alla scarsa produttività e ai bassi salari, coincide con la condizione dei lavoratori immigrati.
Luca Ricolfi nel recente saggio “La società signorile di massa”, la rappresenta come una sorta di mercato del lavoro para schiavista che fornisce una ben diversa interpretazione all’affermazione “gli immigrati svolgono i lavori che non vogliono fare gli italiani”. I numeri danno evidenza alla fine di un ciclo di flussi migratori basato sull’importazione di manodopera dequalificata e sottoretribuita. Un segmento del mercato del lavoro gestito da reti informali autoreferenziali e del tutto indifferente alle politiche economiche. Soprattutto a quelle che fanno finta che la realtà sia diversa. Come quelle italiane in materia di immigrazione.