Match in inglese significa confronto, abbinamento, appaiamento. Mismatch è il suo contrario; significa quindi incompatibilità, disparità, disallineamento.
Con riferimento al mercato del lavoro, mismatch significa che la domanda e l’offerta di lavoro non collimano. Il termine inglese si usa anche in riferimento alla corrispondenza tra l’output del sistema formativo e l’input nel lavoro: significa che non tutti trovano il lavoro per cui credevano di avere studiato e, dal verso opposto, che le imprese non trovano sul mercato le competenze necessarie per produrre.
In Italia, i flussi di offerta e di domanda di lavoro non sono bene allineati. Infatti, le imprese lamentano che molti posti di lavoro restano scoperti: nel mese di ottobre del 2023 le imprese hanno affermato di non aver trovato sul mercato il 51% delle assunzioni programmate (indagine Excelsior). La carenza riguarda sia le posizioni di più basso livello (66% degli operai specializzati), sia quelle intermedie di tecnico (53%) e quelle del massimo livello, ossia i dirigenti e gli specialisti (43%).
D’altra parte, tre laureati su quattro (esattamente il 75%, numero quasi fisso negli anni) trovano lavoro entro un anno dal conseguimento del titolo, l’altro 25% dopo un anno (indagine AlmaLaurea). Inoltre, una quota importante dei nostri laureati (8%) va all’estero per trovare un lavoro che dia loro stipendio e opportunità di carriera migliori di quelle loro offerte in Italia.
Esaminiamo ora quelli che faticano a trovare lavoro. A tre anni dalla laurea, i laureati che cercano lavoro senza trovarne uno degno sono il 5,5%; a cinque anni sono il 4,3%. Oltre a questi, una proporzione più piccola, dopo aver inutilmente cercato un lavoro ritenuto congruo, si arrende e ingrossa la pattuglia dei cosiddetti NEET (Not in Employment, Education or Training), cioè degli occupabili che stanno sospesi nel limbo famigliare, senza lavorare e senza prepararsi a lavorare. Tra i NEET, prevalgono i giovani che hanno avuto solo esperienze di lavoretti e solo uno su dieci ha gravi problemi di salute.
Il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro qualificato non dipende, si badi bene, dal fatto che l’università italiana sforni troppi laureati; anzi, siamo il Paese europeo che ha la proporzione di giovani in età 25-34 in possesso di un titolo universitario tra le più basse dell’Unione Europea: peggio di noi solo la Romania. Noi, in quella fascia d’età, siamo al 28% di laureati, mentre la Francia è al 50%, la Spagna al 47% e la Germania al 36% (dati Eurostat). Può sembrare strano che i nostri laureati emigrino prevalentemente verso la Germania (15% di chi va all’estero), la Francia (12%), la Svizzera (9%) e la Spagna (6%), tutti Paesi che hanno quote di giovani laureati superiori alla nostra.
Il disallineamento tra domanda e offerta è dunque notevole e, nel tempo, si è cronicizzato. Mismatch è dunque un esoterico termine inglese che fa velo ad una crisi sociale non trascurabile.
Per capire le cause del disallineamento conviene partire dai grandi numeri. Nel quinquennio 2018-2022, si sono laureati in Italia, in media annua, 352mila studenti. Tra questi, 335mila sono italiani. Come si percepisce dalla Figura 1, il numero di laureati è sensibile agli shock sociali, in modo particolare lo è stato al Covid e alla crisi economico-finanziaria del 2008-2012. Dato che gli shock si stanno susseguendo a ritmo incalzante, possiamo pensare che per i prossimi cinque anni il numero di laureati si mantenga sullo stesso livello medio, o appena sotto.
Le previsioni Anpal-Unioncamere per il 2023-27 indicano che l’Italia avrà bisogno ogni anno – per sostituire i lavoratori che usciranno dal sistema produttivo per pensionamento e per sostenere l’espansione economica – di almeno 680mila nuovi assunti, cifra che potrebbe arrivare a 760mila nell’ipotesi di espansione sostenuta, che non è irrealistica se considera il possibile effetto dei fondi PNRR.
Di questi nuovi assunti, la maggior parte (65%, proporzione crescente nel tempo) andrà a ricoprire posizioni elevate (dirigente, impiegato con elevata specializzazione o tecnico), con una netta prevalenza di specialisti formati nelle università e nei politecnici.
Figura 1. Laureati in Italia, dal 1999 al 2022, per genere (fonte: elaborazione dell’autore di dati dell’Anagrafe Nazionale degli Studenti)
A questo punto, dato che anche un esperto statistico fatica a trovare i nessi tra i tanti numeri in campo, è necessario semplificare il quadro, descrivendo solo i macro-fenomeni, che sono i seguenti:
a) La scuola superiore e l’università italiane fanno fatica a “produrre” contingenti di diplomati e laureati sufficienti a rispondere alle richieste qualificate del mondo del lavoro. In più, la decrescente natalità e un certo scetticismo verso la formazione ridurranno la presenza di italiani nel sistema formativo. Quindi, le difficoltà del sistema aumenteranno nei prossimi anni se non cambiano alcune tendenze che specifichiamo nel seguito.
b) All’università italiana si iscrive un numero insufficiente di studenti nelle discipline tecnico-scientifiche, riunite sotto la sigla STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics). A parziale consolazione, si constata che le difficoltà di orientare le matricole verso le STEM l’hanno anche altri Paesi europei, seppure con resistenze minori delle nostre.
c) La propensione al digitale e alle politiche ambientali porterà a una specializzazione dentro la specializzazione delle competenze richieste ai lavoratori e, di conseguenza, a ulteriori difficoltà nel trovare personale preparato a rispondere alle nuove esigenze produttive. Ecco quindi la necessità che la scuola e l’università adeguino rapidamente i propri corsi di studio.
d) Il numero di specialisti formati in Italia non solo è inferiore alle necessità del mercato, ma i laureati nelle discipline tecniche e scientifiche sono quelli che con maggior frequenza sentono di essere attratti da impieghi all’estero. Può consolarci il sapere che i nostri laureati sono ben accetti all’estero, guadagnano e percorrono carriere impensabili in Italia, e quindi che la formazione ottenuta in Italia è di tutto rispetto.
d) I dati occupazionali dimostrano che i diplomati di scuola superiore, che costituiscono la base professionale dei tecnici, subiscono la concorrenza dei laureati per gli stessi posti di tecnico. Non è raro che le imprese stabiliscano a priori che determinate competenze sono più appropriate per un diplomato di scuola superiore che per un laureato, ma poi finiscono per assumere un laureato che si è presentato per quel posto, naturalmente pagandolo come un diplomato. Questi discorsi, che possono sembrare ostili all’imprenditoria italiana, rispecchiano una realtà determinata dalle scarse risorse del Paese, ma sono anche il risultato di una logica produttiva che mira al ribasso dei costi, invece che al rialzo delle competenze e quindi della competitività. Ci si interroghi, infatti, su che cosa nelle imprese francesi e spagnole, e non nelle nostre, possa attrarre la crema dei nostri laureati.
La logica conseguenza dei fenomeni descritti è che il futuro produttivo del nostro Paese non sembra luminoso. I fenomeni critici si accentueranno se certe tendenze degenerative rimarranno tali. Quindi, che cosa si può fare per invertire o attutire le tendenze?
i) Anzitutto l’orientamento verso l’università. È necessario portare sul mercato del lavoro più tecnici e specialisti, quindi potenziare la formazione nelle discipline tecniche e scientifiche. Vanno, quindi, realizzate a livello europeo – e, di riflesso, in Italia – politiche promozionali volte a dare valore alle competenze tecniche e alla specializzazione professionale acquisibile all’università. Ciò significa sia garantire percorsi professionali consoni all’investimento in competenze, sia ripensare le direttive su albi e ordini professionali. Poi tocca alle famiglie italiane aiutare seriamente i propri figli ad orientarsi nella vita.
ii) Un secondo livello di orientamento può essere pensato per le giovani che stanno per iscriversi all’università. Come si evince dalla Figura 1, da vari anni, le laureate sono numericamente superiori ai laureati. In alcune discipline specialistiche, come la medicina, le donne sono da tempo maggioranza. Però, in modo marcato in Italia, esiste una netta propensione femminile verso le discipline sociali e umanistiche. Dove le donne, pur essendo in aumento, sono cronicamente poche è nell’ambito tecnico, in modo particolare nelle ingegnerie. L’efficacia di una politica volta a promuovere le discipline tecniche presso le giovani donne darebbe un diverso significato anche al differenziale retributivo tra donne e uomini.
iii) Nel nostro Paese non esiste una scuola professionale per la formazione di tecnici a livello universitario. Esistono, per ora solo a livello sperimentale, gli istituti tecnici superiori (ITS). Riguardano poche migliaia di studenti, mentre all’estero sono diffusi e riconosciuti per il loro valore formativo e per l’altissimo tasso di occupazione. Per esempio, in Germania sono diffuse le Fachhochsculen, istituzioni di educazione terziaria di tre anni per la formazione di competenze professionali e con un forte orientamento pratico: i frequentanti spendono metà del tempo in università e l’altra metà in azienda. Analoghi corsi funzionano e sono riconosciuti dal mercato del lavoro in Francia e Regno Unito. I tempi sono maturi per fare la medesima esperienza su larga scala in Italia.
iv) L’ultimo discorso riguarda l’imprenditoria italiana. Le difficoltà di mercato esistono: le imprese, così come le famiglie, sono alle prese con una successione di shock sociali che stanno abituandole a considerare il futuro non solo incerto, come è sempre stato e sempre sarà, ma anche oscuro. Ciò può indurre al pessimismo e a decisioni conservative. Un ausilio alle riflessioni degli imprenditori potrebbe venire da un sistema statistico ufficiale capace di rappresentare i mercati locali nel medio termine. Inoltre, le associazioni di categoria e gli ordini professionali potrebbero contribuire ad educare al pensiero strategico e globalizzante. Siccome l’incertezza sul futuro non è una prerogativa italiana, anche l’Europa dovrebbe fare la propria parte nel garantire soprattutto le condizioni informative al contorno.
Tutte le cose proposte sono virtualmente realizzabili, tanto è vero che in alcuni Paesi sono realtà. Tuttavia, non c’è cosa più difficile da cambiare se non la mentalità dei singoli, che è il prodotto delle loro esperienze e dei propri valori. La mentalità collettiva, la cosiddetta pubblica opinione, invece, può essere orientata al futuro con una adeguata informazione. Ciò significa che il governo del Paese e gli organi di informazione possono invertire un orientamento che ora tende al declino.
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