Si è spesso sostenuto che in Italia c’è bisogno di lavorare di più e studiare di più. Non perché chi lo sta facendo lo faccia poco e male, ma perché siamo pochi a lavorare e pochi a conseguire livelli terziari (universitari) di preparazione. Pochi ovviamente rispetto a Paesi europei con popolazione e tassi di sviluppo analoghi ai nostri.



È noto che noi abbiamo una domanda di lavoro alquanto particolare data la struttura produttiva caratterizzata da micro e piccole imprese. Tale struttura offre maggiore flessibilità nelle crisi, ma anche una maggiore rigidità quando, di fronte a opportunità di sviluppo, vi è necessità di fare sistema.

Per quanto riguarda l’obiettivo di far crescere l’occupazione si è ovviamente sempre sostenuto che è indispensabile stimolare la domanda di lavoro tramite il sostegno agli investimenti, pubblici e privati, e favorendo un’espansione dei consumi. Resta evidente che l’allargamento della base produttiva è indispensabile per assicurare la crescita occupazionale complessiva, ma anche l’offerta di lavoro incide nel determinare una bassa crescita dell’economia.



Il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali ha affrontato di petto la questione con un paper di approfondimento teso a dimostrare come le caratteristiche del nostro mercato del lavoro, lato offerta, incide sullo stato di salute complessiva del sistema-Paese.

I dati di base indicano che restiamo maglia nera in molti dei parametri con cui viene misurato l’apporto del lavoro al sistema economico. Il tasso di occupazione italiano (numero di occupati sulla popolazione in età lavorativa) è passato dal 53,7% del 2000 al 58,5% del 2018. La crescita di 5 punti è significativa, ma è inferiore a quanto realizzato nello stesso periodo dai Paesi europei dell’area dell’euro (+6%) e ci lascia di oltre 10 punti sotto il tasso di occupazione medio europeo che sfiora il 70%.



D’altro canto è anche il tasso di attività complessivo (somma di occupati e persone in cerca di lavoro) che con il 65,4% del 2019 ci colloca all’ultimo posto fra i Paesi europei. All’interno di questo dato emerge inoltre il triste record di essere il Paese con il maggior numero di giovani che non sono impegnati né in attività lavorativa, né di studio. Arriviamo al 28,9% contro una media europea del 16,5%.

Si potrebbe però ipotizzare che pur lavorando in pochi siamo tuttavia in grado di ottenere un grande risultato produttivo. Nemmeno in questo i dati ci confortano perché lavoriamo in media 37,4 ore a settimana, in linea con i Paesi europei più simili a noi, ma con una produttività per ora lavorata che resta ferma da tempo. Restiamo ultimi nella classifica della produttività perché mentre in Italia fra il 2000 e il 2019 non vi è stata crescita, nei Paesi europei nostri concorrenti è aumentata mediamente di 8 punti.

Due riflessioni generali emergono da questi primi dati. Non è vero che vale la regola “lavorare meno per lavorare tutti”. La realtà europea indica che vi sono più posti di lavoro dove si produce di più. Senza surplus da distribuire anche i posti di lavoro restano scarsi. Va inoltre sottolineato che quell’8% di differenziale nella produttività, in assenza dell’euro, sarebbe stato il tasso di svalutazione della lira per tenere in pareggio il tasso di competitività. Oggi lo paghiamo con le difficoltà e la scarsa affidabilità del nostro sistema economico.

Altri aspetti caratterizzano però la nostra offerta di lavoro rispetto ai partner europei. In primo luogo vi è la durata della vita lavorativa che è in Italia di 31,8 anni in media (era di 28,5 nel 2000), mentre la media europea resta sopra i 35 anni. A ciò si aggiunge che il peso dei pensionati sul totale della popolazione attiva è maggiore. Per Italia e Francia vi sono meno di 1,5 attivi per pensionato mentre in Germania sono 1,8.

Sono tutti dati che contribuiscono a tenere basso l’output complessivo determinato dal lavoro. Anche i cosiddetti contratti precari hanno da noi un effetto disincentivante. Mentre il ricorso ai contratti a termine è in linea con quanto avviene nei Paesi europei confrontabili, abbiamo invece un bassissimo ricorso al part-time volontario con il risultato di tener fuori dal mercato del lavoro quanti sarebbero disposti a lavorare ma solo con orario ridotto.

Va infine valutato il contributo che dà la formazione alla nostra offerta di lavoro. Con il 29,4% di laureati sul totale degli attivi (dato 2018), siamo 13 punti sotto la media europea. A ciò si aggiunge che offriamo meno opportunità visto che in Italia nemmeno il titolo di studio garantisce una occupazione certa e un livello occupazionale corrispondente all’investimento formativo fatto. Se con un livello primario di formazione abbiamo mediamente un 45% di occupati, e in Italia con il 43,8% siamo allineati alla media europea, con il livello secondario abbiamo il 64,3% di occupati contro il 72% europeo e con il livello terziario solo il 78,7% contro una media del 85%. Se leggiamo le percentuali come probabilità di occupazione e al livello di formazione corrispondente, otteniamo che per i livelli secondario e terziario in Italia abbiamo il 10% di probabilità in meno di trovare lavoro al livello soddisfacente. Ovviamente tale situazione si riflette sui livelli di reddito che risultano in Italia, a parità di livello formativo, più bassi anche del 20% di quelli dei Paesi europei confrontabili.

I dati analizzati con riferimento all’offerta di lavoro portano a dare un peso alla questione del lavoro come un fattore che pesa nel determinare il basso livello assoluto e il basso tasso di crescita che abbiamo registrato nel Pil degli ultimi anni rispetto ai risultati dei Paesi europei dell’area euro.

Il metodo seguito dagli autori della ricerca ci indica la importanza da attribuire alla verifica con dati reali cui sottoporre le teorie economiche e le vision che emergono in questi anni per tentare di spiegare i diversi risultati di sistemi economici apparentemente simili. Metter in moto la domanda di lavoro richiede tempo, investimenti fisici e di nuove forme di organizzazione del lavoro. Nel breve periodo ritardi e contraddizioni che caratterizzano il nostro mercato del lavoro non permetterebbero di ottenere grandi risultati semplicemente copiando quanto fatto da altri Paesi. Una sola misura permetterebbe risultati positivi certi ed è la diffusione con numeri ben più alti degli attuali del sistema duale sia di primo che di terzo livello che favorirebbe una correzione del tasso di formazione della nostra offerta di lavoro e innalzerebbe allo stesso tempo la probabilità di occupazione in lavoro di qualità. Purtroppo tale tema non è portato avanti con determinazione dai responsabili delle politiche dell’occupazione né a livello nazionale, né regionale.