Marco Biagi sosteneva che il mercato del lavoro italiano era uno dei peggiori dei Paesi industrializzati. Da allora sono trascorsi 20 anni, sono state attuate importanti riforme (come al solito insidiate da tentativi di controriforme andati a segno), ma è indubbio che la situazione non sia migliorata.

Nel mercato del lavoro italiano convivono fenomeni contraddittori che, tuttavia, sono interdipendenti: livelli di occupazione e disoccupazione che, nonostante le ripetute crisi, presentano trend tra i più elevati degli ultimi decenni, indici crescenti di mismatch, basse retribuzioni e produttività stagnante, spreco di capitale sociale nonostante gli inadeguati standard di scolarizzazione e quant’altro.



Se si mettono a confronto più analisi emergono i medesimi scenari. Magari cambiano gli angoli di visuale in relazione al diverso approccio politico dei grandi soggetti collettivi. Tuttavia, il combinato disposto dei punti di forza e dei limiti consente a quanti si accostano ai dati senza pregiudizi di valutare meglio la situazione. La Fondazione Di Vittorio (il centro studi della Cgil), ad esempio, mette le mani avanti e invita a considerare le statistiche con minore ottimismo.



“È sempre un bene – scrive la FDV – quando l’occupazione aumenta, ma la situazione è davvero così rosea come i commenti quasi univoci e spesso trionfalistici hanno evidenziato? Non è la prima volta che gli occupati superano il numero di 23 milioni. Era già accaduto nel 2018 e 2019, ad inizio del 2020 prima della pandemia e addirittura nel 2008. La differenza con ottobre del 2008 (14 anni fa) è di circa 244 mila occupati, ma ad aprile del 2008 venne toccato il numero di 23 milioni 148 mila occupati cioè di circa 83 mila occupati di differenza rispetto ad oggi; nel 2019 ad ottobre fu raggiunto il numero di 23 milioni 43 mila occupati (-187 mila unità), ma nello stesso anno, a giugno, con 23 milioni 222 mila la differenza era solo di 8 mila occupati rispetto ad oggi. In realtà, quindi, è da molto tempo, fatto salvo il drammatico calo dovuto alla pandemia, che il numero massimo di occupati italiani si è attestato più o meno attorno ai 23 milioni; parlerei dunque di un andamento sostanzialmente stazionario più che di boom, fermo restando che qualsiasi aumento è il benvenuto. Ma se la situazione numerica è di fatto assestata da tempo attorno a valori simili, perché il tasso di occupazione incrementa percentualmente molto di più fino a raggiungere ad ottobre di quest’anno il 60,5%? Perché è solo in parte determinato dall’aumento degli occupati, mentre incide prevalentemente sulla salita del tasso la contestuale e drastica diminuzione della popolazione in età da lavoro. Prendiamo, ad esempio, in esame la situazione di febbraio 2020, periodo ancora pre-pandemico, e quella attuale di ottobre 2022: in questo arco temporale gli occupati sono cresciuti di +157 mila unità mentre la popolazione in età lavorativa è diminuita di -677 mila unità (15-64 anni)”.



Sono considerazioni corrette. Si potrebbe obiettare tuttavia che, proprio perché diminuisce la popolazione in età di lavoro in conseguenza di un decremento della natalità, sarebbe opportuno che gli anziani/giovani, ancora in grado di lavorare, non fossero incentivati, nei fatti, ad andare in pensione.

Federico Fubini del Corriere della Sera ha un punto di vista differente. Magari si accontenta di vedere la parte del bicchiere piena e non quella vuota, ma è indubbio che ci sia più acqua anche se il bicchiere non è colmo.

Le novità positive sono lì davanti ai nostri occhi, innegabili. Il tasso di disoccupazione oggi è il più basso da prima che la crisi dell’euro travolgesse l’Italia 14 anni fa. Il numero dei disoccupati – persone in carne ed ossa, non percentuali – è il più basso da quando la crisi finanziaria travolse Lehman Brothers quasi 15 anni fa. Il tasso di occupazione quest’anno (2022) è arrivato al più alto livello almeno dal 1977; il tasso di occupazione femminile è ancora troppo basso, ma viaggia anche quello ai massimi di sempre per l’Italia. Anche il tasso di occupazione giovanile è tornato ai massimi da prima che lo tsunami della crisi dell’euro si abbattesse sul nostro Paese. E il numero degli occupati? Anche qui voglio dire le persone in carne ed ossa, non un’astrusa percentuale. Beh, quello è il più alto… dai tempi del governo di Paolo Gentiloni (2018) […] ci stiamo avvicinando al numero di dieci milioni di donne occupate, forse supereremo questa soglia nel 2023. Qualcosa di mai visto prima nel Paese”.

È il momento del responso ufficiale dell’Istat. A novembre 2022, comunica l’Istituto di statistica, dopo due mesi di crescita, l’occupazione torna a diminuire per effetto del calo dei dipendenti permanenti. Il totale dei dipendenti rimane tuttavia superiore a quello di novembre 2021, di 314mila unità (il numero degli indipendenti è invece inferiore di 36mila). Rispetto a ottobre 2022, nel mese di novembre il tasso di occupazione scende al 60,3% (-0,1 punti), quello di disoccupazione è stabile al 7,8% mentre sale al 34,5% il tasso di inattività (+0,1 punti).

I trend sono confermati anche dalla Nota trimestrale del ministero del Lavoro, Istat, Inps, Inail, Anpal, del 20 dicembre 2022.

“Prosegue la crescita tendenziale delle posizioni lavorative a tempo indeterminato sia nei dati delle CO (+365 mila rispetto al terzo trimestre 2021), sia in quelli Inps-Uniemens (+341 mila in un anno). La dinamica è positiva anche per le posizioni a tempo determinato, tanto nei dati delle Comunicazioni obbligatorie (CO) (+201 mila posizioni), quanto in quelli di Inps-Uniemens riferiti alle sole imprese private (+184 mila posizioni) che comprendono il lavoro in somministrazione e a chiamata. Nel terzo trimestre 2022, il numero dei lavoratori in somministrazione raggiunge le 482 mila unità (Inps-Uniemens) presentando un nuovo aumento tendenziale (+14 mila, +3,0% in un anno), seppur a ritmi meno intensi di quelli registrati nei precedenti sei trimestri. In rallentamento anche la crescita del numero di lavoratori a chiamata o intermittenti (+25 mila, +10,0% rispetto al terzo trimestre 2021) che si attestano a 271 mila unità (Figure 5 e 6). Dai dati delle CO, nel terzo trimestre 2022, il 31,7% delle nuove posizioni lavorative attivate a tempo determinato ha una durata prevista fino a 30 giorni (l’11,4% un solo giorno), il 30,1% da due a sei mesi, e meno dell’1,0% supera un anno. Nel complesso, si riscontra un aumento dell’incidenza, sul totale delle attivazioni, dei contratti di brevissima durata (fino a una settimana +2,1 punti rispetto al terzo trimestre 2021), di quelli da sei mesi a un anno (+1,1 punti in un anno) e la riduzione nelle altre classi di durata. Nel terzo trimestre del 2022 l’utilizzo del Contratto di Prestazione Occasionale è rimasto in linea con i valori del 2021 e coinvolge mediamente, ogni mese, circa 14 mila lavoratori. Nello stesso periodo del 2022, il Libretto Famiglia registra in media mensile circa 10 mila prestatori. Il lavoro indipendente, secondo la Rilevazione sulle forze di lavoro (Rfl), è in aumento su base sia congiunturale che annua (+0,2% e +1,4%, rispettivamente). La lieve diminuzione congiunturale dell’occupazione (-12 mila, -0,1%), sempre secondo i dati Rfl, si associa al calo dei disoccupati (-52 mila, -2,6%) e alla leggera crescita degli inattivi di 15-64 anni (+30 mila, +0,2%); su base tendenziale l’aumento degli occupati (+247 mila, +1,1%) si accompagna al calo delle persone in cerca di occupazione (-284 mila, -12,9%) e degli inattivi 15-64enni (-254 mila, -1,9% rispetto al terzo trimestre 2021)”.

E le aziende? Il Rapporto Excelsior tira le somme del 2022 e indica le previsioni per gennaio e il terzo trimestre dell’anno in corso.

“Le problematiche internazionali di carattere politico ed economico legate al conflitto in Ucraina non sembrano finora aver avuto un impatto negativo sui fabbisogni occupazionali previsti per il 2022 dalle imprese private dell’industria e dei servizi che operano in Italia. Tra le imprese con dipendenti, quelle che hanno programmato di effettuare assunzioni sono il 60% del totale, percentuale sostanzialmente in linea con quella rilevata lo scorso anno. Si osserva invece una crescita rilevante del numero di lavoratori – con qualsiasi forma contrattuale – previsti in entrata nelle imprese, che passano da 4,6 milioni di unità nel 2021 a circa 5,2 milioni nell’anno in corso (un incremento dell’ordine dell’11%). Mentre rimane pressoché inalterata la propensione delle imprese a ricorrere a lavoratori giovani emerge una crescita significativa della loro difficoltà nel trovare i profili ricercati, che dovrebbe riguardare il 41% delle entrate (a fronte del 32% lo scorso anno). In quasi due casi su tre i problemi di reperimento attesi deriverebbero da una scarsa presenza di persone disponibili e soltanto in un caso su tre sarebbero attribuibili a una scarsa preparazione dei candidati o ad altri motivi”.

Le analisi del Programma Excelsior poi si focalizzano sulle principali caratteristiche delle entrate programmate nel mese di gennaio 2023, con uno sguardo sulle tendenze occupazionali per il periodo gennaio-marzo 2023. Le entrate previste nel mese di gennaio ammontano a 503.670; nel primo trimestre dell’anno 1.307.070; a gennaio sarà interessato il 13% delle aziende, le assunzioni saranno per il 30% giovani, ma le difficoltà di reperimento sarà pari al 46% del fabbisogno. Anche se non possiamo attribuire questi dati interamente a un incremento dell’occupazione, i flussi evidenziano una dinamica effettiva del mercato del lavoro.

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