È di settimana scorsa il bollettino Istat che ci informa sui dati occupazionali riferiti al primo bimestre dell’anno. I numeri riguardano il periodo precedente alla quarantena collettiva che ha progressivamente bloccato le attività produttive, ritenute non prioritarie, a partire dal mese di marzo.Febbraio ha segnato una sostanziale stabilità rispetto al mese precedente. Il dato complessivo degli occupati porta al 58,9% il tasso di occupazione. All’interno degli occupati si registra un ulteriore calo dell’occupazione più stabile (i dipendenti permanenti calano di 20 mila unità e gli indipendenti di 4 mila). Crescono i dipendenti a termine (+14 mila) e segnano una crescita anche i giovani (15-24 anni) occupati (+35 mila) e le donne (+12 mila). Il risultato stabilizza anche la disoccupazione generale al 9,7 % (-0,1%) e lascia quell giovanile al 29,6%.



Il dato della stabilità ci dice poco se non guardiamo alla tendenza rilevata almeno negli ultimi trimestri. E allora scopriamo una discesa che prosegue ormai da più di un semestre. Il trimestre dicembre-febbraio segna infatti una diminuzione del tasso di crescita dell’occupazione che era già stato rilevato nel trimestre precedente così che il tasso di occupazione, che era salito fino al 59,4%, torna a essere inferiore al 59%, allontanandosi dal massimo raggiunto nella prima metà del 2019.



Se confrontiamo i saldi a 12 mesi registriamo un numero di occupati complessivi molto vicino, ma con un netto calo dei lavoratori indipendenti (-126.000), quasi compensati dalla crescita dei dipendenti (+120.000). Lo spostamento sempre più accentuato da lavoratori indipendenti a dipendenti, probabilmente dovuto agli effetti perversi del decreto dignità, non ha comunque intaccato il ricorso a contratti a termine e la crescita del part-time involontario. Nonostante questo calo siamo ancora il Paese europeo, fra i più industrializzati, con la quota maggiore di lavoratori indipendenti (10% più del dato tedesco e qualche punto in più del dato francese). E, infine, non è nemmeno un indicatore della crescita della dimensione media delle nostre imprese, ma è il risultato della crisi del commercio al dettaglio e di alcuni settori delle professioni.



I dati ci confermano quindi che avevamo, già prima della crisi, una situazione del mercato del lavoro che richiedeva una scossa positiva per riprendere una crescita del tasso di occupazione verso l’obiettivo del 65%, come indicato nei documenti di programmazione economica a medio termine. È arrivata invece la gelata economica indotta dal coronavirus che ha invertito violentemente le tendenze in atto.

Dopo il primo mese di chiusura delle attività incominciano a esserci prime valutazioni degli scenari che ci aspettano. Le prime stime dell’Organizzazione internazionale del lavoro prevedono la perdita di 25 milioni di posti di lavoro nel mondo. Purtroppo tale dato viene aggiornato al rialzo col passare dei giorni e con l’estendersi della pandemia a nuovi Paesi. Basti rilevare che già nella prima settimana di impatto del virus, gli Usa hanno registrato 3 milioni di nuove richieste di indennità di disoccupazione.

Per quanto riguarda il nostro Paese abbiamo le prime proiezioni fatte sulla base di previsioni relative al calo di fatturato che sarà registrato dalle imprese. I dati più attendibili, frutto di una elaborazione di Unioncamere, tracciano due scenari, uno più positivo e uno pessimistico. Nel primo caso si registrerà una diminuzione del fatturato del 7% e si prevede che occorreranno due anni per tornare al livello pre-crisi. Nella proiezione pessimistica la perdita sarà del 18% e occorreranno quattro anni per recuperare le perdite. Sulla base di questi scenari si possono ipotizzare due valutazioni sull’impatto che vi sarà sull’occupazione. Nel primo caso si calcola che vi saranno 98.000 imprese che chiuderanno e si prevede una perdita di 2,2 milioni di posti di lavoro. Nel secondo caso avremo la chiusura di 176.000 imprese e la perdita di 3,8 milioni di posti di lavoro. Il tasso di occupazione potrebbe così passare dal 59% al 53% riportandoci ai minimi registrati negli anni della crisi economica post-2008.

Ovviamente l’impatto non sarà identico per i diversi settori economici. Quelli con occupazione più flessibile – ospitalità, ristorazione, spettacoli e logistica – subiranno i cali più forti. Si prevede che la sola filiera turistica possa perdere 1,5 milioni di posti di lavoro.

A conferma delle prime previsioni generali arrivano i dati elaborati dalle Agenzie del lavoro di Lombardia e Veneto sulla base delle comunicazioni obbligatorie. Il risultato relativo alle due settimane del mese di marzo porta a un aumento della disoccupazione di circa lo 0,6%. Significa quasi 50.000 posti di lavoro persi in 15 giorni nelle due regioni. Nelle due regioni più colpite dall’impatto dell’emergenza sanitaria sono attive oggi un po’ meno del 50% delle attività produttive che impegnano poco più del 50% del totale degli addetti con punte del 60% nelle aree urbane come quella di Milano.

L’insieme dei dati di questo primo periodo di crisi ci prefigura una grave problematica occupazionale che esploderà in tutto il suo impatto quando si uscirà dalla quarantena. È adesso che si deve dar vita a un comitato capace di disegnare un grande piano per il lavoro per il momento della ripartenza. Non si potrà certo proseguire solo con redditi di sussistenza a carico della fiscalità, ma occorre mettere il lavoro al centro dei piani di ripresa. Grandi investimenti pubblici e privati per recuperare nel più breve tempo possibile il deficit che si è creato e un piano di servizi di politiche attive del lavoro che metta tutti all’opera per la ricostruzione di quanto è andato perduto.

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