A cinque anni dall’avvio della ripresa economica, il mercato del lavoro italiano mostra finalmente, nonostante l’ingresso dell’economia in una fase di rallentamento ciclico, un sostanziale miglioramento, superando i livelli occupazionali pre-crisi e riducendo progressivamente la forza lavoro non utilizzata nel sistema produttivo, che permane tuttavia, è bene sottolinearlo, ancora su livelli troppo elevati.
La ripresa dell’occupazione è, infatti, riuscita solo parzialmente a ridurre le vulnerabilità e i divari, già presenti nella nostra società e che si erano acuiti in maniera significativa durante la lunga fase recessiva. Anche la stessa domanda di lavoro complessivo, misurato dal totale delle ore lavorate, resta ancora ampiamente al di sotto del livello pre-crisi.
Se si osserva con uno sguardo più amplio al decennio 2008-2018, si deve evidenziare come il deciso aumento dei lavoratori dipendenti e il calo di quelli autonomi, o presunti tali, si siano, ahimè, accompagnati a una ricomposizione interna dei due aggregati che ha accresciuto il peso delle componenti relativamente più deboli.
Tra i lavoratori dipendenti è aumentata infatti l’incidenza dei lavori a termine, in particolare di quelli inferiori ai sei mesi (nonostante, ad esempio, la retorica sul Jobs Act e le tutele crescenti), e tra gli autonomi quella, già cospicua, degli autonomi senza dipendenti: un segmento particolarmente eterogeneo e con noti e ampi tratti di vulnerabilità sociale. Contestualmente si sono ridotte le forme di lavoro permanente a tempo pieno (l’ormai mitologico “posto fisso” raccontato da Checco Zalone), mentre è fortemente aumentato il part-time (ovviamente) involontario, soprattutto per le donne.
In questo quadro di generale arretramento della struttura “produttiva” e occupazionale del Paese che si caratterizza per una ricomposizione a favore delle professioni meno qualificate, si acuisce, ad esempio, il problema del mismatch tra domanda e offerta di lavoro e fa emergere come fattore “critico” per la sostenibilità del nostro sistema la presenza di persone sovraistrutite, ovvero di lavoratori (in maggioranza “giovani”) con un titolo di studio più alto rispetto a quello richiesto per la mansione svolta.
Sembra, insomma, almeno secondo il rapporto annuale dell’Istat, che non sia più tanto vero l’adagio di gucciniana memoria per cui un laureato conta più d’un cantante. Forse anche questo spiega la folla dei giorni scorsi, seppure inferiore al previsto, di tanti uomini, ma soprattutto donne, al mega concorsone per i navigator voluto da Luigi Di Maio. O forse la ragione va trovata nel fatto che, nonostante tutto, gli italiani rimangono un popolo di santi, poeti e navigator?