La letteratura degli ultimi anni sugli e sulle adolescenti sottolinea la fragilità di questa generazione (Pietropolli Charmet, 2010), determinata per lo più dalla percezione di sentirsi inadeguati e di esser considerati tali.
Si tratta di un vissuto connesso al contesto socioculturale in cui stiamo vivendo, connotato da standard iper-prestativi di cui spesso si fatica a rintracciare il senso. La stagione che stiamo vivendo – connotata dal post- Covid e dai conflitti – mostra una drammatica peculiarità: la difficoltà ad accettare la propria e l’altrui vulnerabilità, a darle valore, a riconoscerne gli aspetti di sofferenza e criticità così come gli aspetti di opportunità, ma soprattutto la difficoltà a riconoscere il fatto che la vulnerabilità non è eliminabile dalla vita delle persone, perché fa parte della natura umana ed è la base della costruzione dei legami.
L’indebolimento dei legami sociali, che rende più difficile l’elaborazione del limite e il contrasto delle difficoltà – in aggiunta al modello iper-prestativo dominante e al cosiddetto esodo dalla cittadinanza, ossia il trasferimento dal territorio della costruzione del bene comune come cittadini al territorio del privato –, porta le persone a vivere un’esistenza trafelata, con la percezione di costante inadeguatezza, e le trasforma in “adoratori” di un successo effimero connotato da rancore, risentimento, senza integrità e senza verità.
Questo clima impatta sulla vita di tutte le persone, ma ancor di più sulla vita degli e delle adolescenti, che sentono su di sé l’imperativo rivolto loro dalle generazioni adulte di autorealizzarsi, di “essere se stessi/e” (assediati da una miriade di opportunità e con l’obbligo – implicito – di coglierle tutte) e senza bussole valoriali forti. Qualche anno fa circolava uno spot pubblicitario che recitava “Impossible is nothing”, incarnando la nuova teologia invisibile e indicibile che si è installata nel nostro immaginario: tutto è nostra disposizione (“basta un clic!”), tutto è raggiungibile. Ciò che è sotteso e a cui tutti pensano in cuore loro è: “quindi se non ti realizzi, se non arrivi al successo la colpa è solo tua!”. Gli/le adolescenti di oggi vivono la lacerazione tra la constatazione dell’esistenza di opportunità illimitate e la consapevolezza di avere dei limiti, del fatto cioè che non tutte le opportunità da cui sono circondati possono essere colte.
È in questo contesto che sorge la paura di fallire, ossia il desiderio di evitare l’insuccesso in contesti valutativi, ed è associata al sentimento di vergogna. Essa deriva dal timore di non essere in grado di raggiungere gli obiettivi ritenuti significativi o di dimostrare adeguatamente la propria competenza in contesti ove è presente una valutazione, per esempio la scuola, in cui il proprio rendimento è valutato rispetto a standard. La paura di fallire si traduce in emozioni e cognizioni negative nonché in comportamenti basati sull’evitamento (per es. l’evitamento della messa in atto del comportamento stesso) che, a loro volta, producono effetti fisici e psicologici negativi sulle persone, come per esempio depressione, disturbi alimentari, ansia e attacchi di panico, consumo di sostanze.
Questo tema è stato sviluppato nell’ultima rilevazione Generazione Z, effettuata dall’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo, realizzata su un campione rappresentativo della popolazione italiana di età compresa tra i 14 e i 19 anni, composto da 800 persone. Ai/alle ragazzi/e è stato proposto un questionario via CAWI in cui era contenuta la scala Multidimensional fear of failure measurement che sottende 5 dimensioni: paura di sperimentare vergogna e imbarazzo, paura di svalutare il proprio Sé, paura di avere un futuro incerto, paura di perdere l’interesse da parte di altri significativi, paura di deludere gli altri significativi.
La Tabella 1 mostra le medie dei punteggi sulle 5 dimensioni.
Nel complesso, considerato che la modalità di risposta era una scala Likert a 5 gradazioni (da 1: “Mai, quasi mai” a 5: “Sempre, quasi sempre”), è possibile affermare che i partecipanti alla ricerca mostrano livelli medio-alti di paura di fallire. La paura maggiore è quella di sperimentare vergogna e imbarazzo a seguito di un fallimento, seguita dalla paura di dover svalutare il proprio Sé, la paura di dover cambiare i progetti futuri, di deludere gli altri e, infine, di perdere di interesse agli occhi degli altri.
In linea con i dettami della società iperprestativa che accentua il focus sulla singola persona, la paura di fallire si concentra soprattutto su dimensioni individuali – la vergogna, il decremento di autostima –, meno sulle dimensioni che potremmo definire relazionali. La vita degli/delle adolescenti sembra ruotare così intorno alla cura per la bellezza fisica e psichica, sociale ed espressiva, rendendoli esposti al rischio di sentirsi poco apprezzati, umiliati e mortificati da un ambiente che non offre loro il giusto riconoscimento. È una paura di fallire che può essere definita narcisistica, perché ciò che produce sofferenza è proprio il mancato sguardo dell’altro.
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