Ieri l’Istat ha pubblicato i dati relativi all’andamento dell’occupazione nel mese di novembre 2021. Rispetto al mese precedente gli occupati sono cresciuti di 64.000 unità, lo 0,3% rispetto al mese corso. Negli ultimi tre mesi la crescita è stata di circa 200.000 unità.
Se contiamo da novembre 2020, la crescita è di 494 mila occupati, arrotondando 290 mila maschi e 205 mila femmine. Di questi 494 mila occupati in più, solo 4mila sono indipendenti, tutti gli altri sono lavoratori dipendenti. Fra i dipendenti i contratti a termine sono 448 mila, mentre i contratti a tempo indeterminato sono 42.000.
Il tasso di occupazione (vale a dire la percentuale di chi lavora sul totale delle persone in età 15-64 anni) sale al 58,9%. Con la crescita dell’occupazione sono diminuiti i disoccupati, ma soprattutto gli inattivi, vale a dire le persone che non hanno un lavoro e non lo cercano attivamente, oppure non sono disposte a cominciare a lavorare nelle prossime due settimane, oppure accetterebbero solo determinati lavori.
I disoccupati in senso stretto in Italia sono quindi 2 milioni e 338 mila, in calo di 43.000 unità rispetto a ottobre.
Come interpretare questi dati? La crescita dell’occupazione è sempre una notizia buona. La riduzione dovuta alla pandemia e alle misure che hanno chiuso o limitato le attività produttive si sta riassorbendo lentamente. D’altra parte la pandemia non è conclusa e molte attività economiche sono aperte senza che nessuno possa dare loro un orizzonte chiaro. Non è solo una questione di misure politiche: il numero dei malati è prossimo ai 2 milioni di persone che, pur in condizioni diverse, fino alla guarigione non possono dare un gran contributo alla vita produttiva ed economica del Paese.
Nell’incertezza regnano i contratti a termine. Inevitabile che le cessazioni contrattuali siano destinate a crescere dopo qualche mese, senza che per questo si possa urlare alle grandi dimissioni. Dove il fenomeno delle dimissioni volontarie cresce, come ad esempio negli Usa, cresce anche il lavoro autonomo; in Italia i 4.000 autonomi in più in un anno non sono davvero un segnale di fuga dal lavoro dipendente.
Stanno tornando sul mercato del lavoro anche gli inattivi, visto che tutto sommato un lavoro si può cercare e trovare liberamente e che tutti i sussidi sono sottoposti a meccanismi di riduzione automatica nel tempo (almeno quelli legati strettamente allo stato occupazionale). Fra gli inattivi molti sono comunque disponibili al lavoro e questo contingente di persone non va sottovalutato dalle politiche, dato che l’andamento demografico sta riducendo progressivamente il numero delle persone in età da lavoro.
Il tasso di occupazione, anche se è in rialzo, resta comunque sotto il 60%, basso rispetto alla maggioranza di Paesi europei di dimensioni paragonabili all’Italia. In Germania a luglio 2021 il tasso di occupazione era al 75,6%, in Francia era al 67,5% a settembre, in Polonia era al 70% a luglio, in Gran Bretagna al 75,5% a ottobre.
Le persone disponibili al lavoro ci sono, i datori di lavoro lamentano da anni e in qualsiasi congiuntura mancanza di forza lavoro adeguata, far crescere l’occupazione ai livelli degli altri Paesi di grande dimensione è necessario per far sì che il welfare resti sostenibile (il welfare lo paga il lavoro, da sempre).
La domanda sorge spontanea: cosa ci manca allora? I Paesi con i tassi di occupazione più alti hanno politiche attive del lavoro universali. Le politiche attive del lavoro sono un’infrastruttura, come le autostrade; è difficile dimostrare che il singolo lavoratore ne abbia un beneficio immediato per il costo che si sostiene, così com’è difficile dimostrare che in autostrada si arriva sempre prima e senza problemi e che ogni autostrada è un investimento che si paga da sé in poco tempo. Ma senza autostrade saremmo un Paese paralizzato, così come senza politiche attive del lavoro abbiamo un mercato del lavoro bloccato.
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