L’ultimo dato sull’occupazione in Italia rilasciato dall’Istat a prima vista farebbe ben sperare dal momento che il tasso raggiunto – il 59,4 per cento – è il più alto dal 1977 e cioè da quando esistono le serie storiche per questo tipo di rilevazioni. Nel novembre del 2019 si sono contati 41mila posti di lavoro in più che nel novembre del 2018 con un incremento dello 0,2 per cento e un valore assoluto che raggiunge quota 23 milioni 486mila.



In più, l’incremento è quasi interamente dovuto alla componente femminile (36.000 nuove unità) e riguarda essenzialmente le posizioni dipendenti a discapito di quelle autonome. Tutto questo nonostante – e a questo punto potremmo dire per effetto – dell’abolizione dell’articolo 18 che rende più flessibile il mercato del lavoro e che tante polemiche aveva suscitato e suscita ancora da chi vorrebbe reintrodurlo come totem sindacale.



Allo stesso tempo, dicono sempre i numeri, aumenta il tasso di disoccupazione. Il che potrebbe apparire una contraddizione se non si tiene conto del fatto che diminuiscono gli inattivi, coloro cioè che non hanno e non cercano un lavoro tenendosi fuori dal mercato condizionandone le statistiche. Dunque, la conclusione, ci sono più persone che si mettono in gioco, in parte trovano lavoro e in parte no, a farcela sono soprattutto donne.

Sembrerebbe una buona notizia. E potrebbe anche esserlo (in certi tempi bisogna sapersi accontentare) se non fosse per il fatto che i dati dell’Istat nulla dicono in merito alla quantità delle ore lavorare e della qualità delle occupazioni offerte. Insomma, ci sono più persone impiegate: ma per quanto tempo al giorno? E con quali mansioni? Il sospetto è lecito se si guarda all’andamento dell’economia reale e del suo misuratore principe che è il Pil.



La vera contraddizione, infatti, sta nella sostanziale stagnazione del Prodotto interno e nel contemporaneo aumento delle unità lavorative che occorrono per realizzarlo. Anche in assenza di evidenze scientifiche appare ragionevole sostenere che stiano guadagnando terreno i cosiddetti lavoretti, quelli che danno origine e sostanza alla gig economy verso cui si orientano – per scelta e molto più spesso per necessità – tanti giovani in cerca di reddito.

È un bene? È un male? È un fatto. Una conseguenza di come stia mutando il mercato del lavoro e di come siano nate e stiano nascendo nuove figure di occupati con scarse tutele e poca soddisfazione salariale: operatori di call center, fattorini di ristoranti e catene di distribuzione, erogatori di servizi alla persona. Non è la sistemazione che i genitori italiani sognano per i figli, ma è meglio che niente. Rifiutare è da choosy, schizzinosi.

E poi, si dice e si sa, lo stesso fenomeno è visibile in tanti altri Paesi avanzati. La Germania, ad esempio, è la patria dei mini-job e non si può dire che l’economia tedesca, per quanto in affanno, sia arretrata e oppressiva. Quello che ci rende unici, e non certo in positivo, è la debolissima dinamicità del sistema. La tendenza ad assumere una posizione e a conservarla a lungo nonostante l’evidente carica di precarietà che contiene.

Vuol dire che da noi si è inceppato l’ascensore sociale. E chi accetta, giustamente, di fare il suo ingresso nel mercato del lavoro attraverso un’occupazione leggera e per definizione temporanea si ritrova a imprigionato in quella posizione senza riuscire a progredire, a cambiare status e riconoscimento economico come sarebbe auspicabile e altrove accade. Dunque, è al buon funzionamento dell’ascensore sociale che occorre mirare.