Nello scorso mese di ottobre l’Istat ha fornito una serie di dati sull’economia non osservata per l’anno 2018 estremamente interessanti per comprendere la complessa natura di un’economia sommersa che vale l’11,9% del Pil, pari a 211 miliardi di euro, con una lieve riduzione, dello 0,4%, rispetto al 2017. Tale valore è il risultato della somma di tre aggregati principali: le sottodichiarazioni volontarie del fatturato e/o dei costi (96 miliardi), quello generato dall’utilizzo di lavoro irregolare (76 miliardi), l’economia correlata alla detenzione e alla vendita di prodotti illegali o distribuiti da operatori non autorizzati (19 miliardi); quest’ultima, è l’unica componente ad aver registrato un lieve aumento del valore, circa 250 milioni di euro, rispetto all’anno precedente. L’impatto dei due principali aggregati dell’economia sommersa per un valore di circa 192 miliardi, pari al 12% del valore aggiunto, risulta essere particolarmente rilevante nei settori degli altri servizi alla persona (36,1%), nel commercio, alloggio, ristorazione e riparazioni (22,8%), nelle costruzioni (22,7%), nell’agricoltura (17,1%), per valori che risultano sostanzialmente invariati rispetto al 2017. Circa l’80% del sommerso totale sul complesso del valore aggiunto dell’economia nazionale viene generato nei comparti del terziario.



La dimensione del lavoro sommerso è pari a 3,652 milioni di posti di lavoro a tempo pieno equivalenti (Ula), tra i quali un milione di lavoratori autonomi, con un tasso di irregolarità complessivo pari al 15,1% degli occupati. Un numero che non deve essere frainteso con quello degli occupati totalmente irregolari dato che ricomprende la somma delle prestazioni svolte anche da lavoratori nelle forme del doppio o del triplo lavoro, delle remunerazioni non dichiarate, delle sottodichiarazioni dei lavoratori autonomi, delle prestazioni occasionali svolte da studenti e pensionati. Il lavoro irregolare risulta largamente superiore alla media nei servizi alle persone (46,9%), nell’agricoltura (18,8%), nelle costruzioni (17,3%), nel commercio (15,5%). Numeri che coincidono in modo significativo, per la parte del lavoro dipendente, con le quote di partecipazione degli immigrati nei medesimi settori.



La componente Ula per le prestazioni di lavoro autonomo prevale in particolare nel commercio, alloggio e ristorazione, manutenzione e riparazione, e nei servizi alle imprese. L’Agenzia delle entrate quantifica in circa 110 miliardi di euro annui il mancato gettito sulle imposte dirette, indirette e patrimoniali. Ma l’effetto distorsivo si produce anche sulla quantità della spesa pubblica, per le svariate prestazioni sociali che sono correlate al reddito percepito: le detrazioni fiscali, le prestazioni previdenziali e assistenziali, le esenzioni dal pagamento dei tickets sanitari, i contributi agevolati per l’accesso ai servizi, per i bonus erogati per finalità diverse. Vanificando nel contempo l’efficacia delle politiche redistributive che sono all’origine di queste prestazioni. Con effetti diffusi ed eclatanti, se si tiene conto che il 40% dei contribuenti Irpef non versa un euro di tasse, e della costante crescita della spesa assistenziale dello Stato, arrivata a 114 miliardi nel 2019. Senza considerare gli oltre 10 miliardi per esenzioni, prestazioni e contributi assicurate dalle regioni e dagli enti locali nella totale assenza di un monitoraggio adeguato sugli impieghi delle risorse, cui recentemente si sono aggiunti il reddito di cittadinanza, con esiti scarsamente significativi, -0,6% nel corso del 2109 (dato Istat) sul fronte del contenimento dei livelli di povertà assoluta.



Il lavoro sommerso e le sottodichiarazioni diventano, nel contempo, la condizione per incrementare il reddito familiare reale e per accedere in modo privilegiato alle prestazioni sociali. Sul piano economico questo tema incrocia inevitabilmente il ruolo svolto dalle famiglie nella veste di datori di lavoro domestico e di acquirenti di servizi educativi e di cura per le persone, di manutenzioni delle abitazioni e dei mezzi, di lavori occasionali. Le tipologie indicate dall’Istat come le più esposte alle transazioni informali. In questo senso l’intreccio assai diffuso tra l’evasione degli obblighi fiscali e contributivi e l’accesso opportunistico alle prestazioni sociali e ai sostegni al reddito erogate dalla Pubblica amministrazione è diventata una forma diffusa di resilienza del ceto medio alle avverse vicende economiche. In diversi settori consente la sopravvivenza di imprese e attività marginali.

La volontà di contrastare questi fenomeni è stata costantemente ribadita dai Governi che si sono alternati alla guida del Paese. Con iniziative di diversa natura: il potenziamento delle attività ispettive con il supporto dell’accesso alle informazioni sui redditi e sui patrimoni, la tracciabilità dei pagamenti, con l’ausilio di studi di settore per la stima dei redditi, le restrizioni per l’utilizzo del contante, con forme di detrazioni fiscali per gli acquirenti di prestazioni che favoriscono il conflitto di interesse. Nell’ultimo decennio i risultati prodotti dalle iniziative di contrasto, documentati dalla’Agenzia delle entrate, non hanno scalfito l’entità dell’economia sommersa che si è mantenuta costantemente intorno al 12-13% del Pil. L’efficacia delle azioni ispettive sul campo si riduce per la scarsa incidenza delle stesse sull’abnorme volume delle micro aziende. La vigilanza ispettiva operata per tramite degli incroci delle banche dati è ridotta per l’assenza di Anagrafi fiscali centralizzate.

Per l’obiettivo di recuperare la gran parte dei crediti fiscali, come noto, sono state promosse diverse forme di condono o di facilitazione dei pagamenti con rateizzazioni e annullamenti di penali e interessi. Con risultati relativamente modesti, circa un sesto degli introiti, rispetto al valore nominale dei crediti vantati dalle Amministrazioni pubbliche. Migliori risultati hanno riscontrato gli interventi promossi per favorire il contrasto di interessi tra acquirenti e fornitori tramite le detrazioni fiscali per le spese sostenute, in particolare per le ristrutturazioni edilizie e per le spese sanitarie, e che potrebbero assumere un peso rilevante se estese agli acquisti dei servizi di assistenza e di cura per i minori e per gli anziani, dove peraltro si concentra buona parte del divario occupazionale del nostro mercato del lavoro rispetto agli altri Paesi della Ue-15. L’implementazione delle tecnologie digitali per la modernizzazione delle imprese, per il trattamento delle informazioni e per la tracciabilità delle prestazioni può offrire un contributo decisivo per migliorare la produttività e ridurre le aree di competizione sleale e di lavoro sommerso.

Con troppa faciloneria è stata abbandonata la scelta di remunerare le prestazioni occasionali, componente strutturale dei mercati del lavoro, in particolare nei servizi e nell’agricoltura, con il modello semplificato dei voucher che ha fatto riprecipitare nel limbo tutta una serie di prestazioni a orario limitato. Dalla capacità di sostituire il lavoro sommerso con la crescita di quello regolare dipenderà buona parte del recupero del divario occupazionale che ci separa dagli altri paesi dell’Ue-15. Un risultato che si può ottenere integrando le iniziative ispettive rivolte a contrastarlo, con una serie di incentivi finalizzate a stimolare la modernizzazione delle imprese, con politiche fiscali che valorizzino il conflitto di interessi e che non penalizzino l’aumento dei redditi dichiarati, evitando l’erogazione di sussidi che favoriscono i fenomeni di dipendenza dalle prestazioni pubbliche, con la promozione di politiche salariali, e di regolazione dei rapporti di lavoro, rapportate alle esigenze di flessibilità degli specifici ambiti lavorativi.