Per la tesi esposta dal sociologo Luca Ricolfi, la società italiana è un’anomalia rispetto al resto d’Europa e si presenta come una società signorile di massa. Con tale definizione intende “una società opulenta in cui l’economia non cresce più ed i cittadini che accedono al surplus senza lavorare sono più numerosi dei cittadini che lavorano”.



Si può dire in altro modo che le famiglie italiane hanno una base patrimoniale tale che possono permettersi di non lavorare potendo mantenere un livello di vita soddisfacente (come nucleo famigliare) grazie a quanto accumulato. È una società che spende più in gioco d’azzardo di quanto spenda annualmente per la sanità e ciò non crea una rivolta delle coscienze.



A tale analisi sono state contrapposte molte tesi che vedono invece nell’incapacità di crescere della nostra economia, e nell’invecchiamento della popolazione, le ragioni per cui è possibile ottenere i risultati sociali sottolineati da Ricolfi, ma non giustificano l’analisi e le conclusioni sociologiche. Un punto certamente controverso è che, nonostante gli alti e bassi del tasso di crescita economico, è costante la crescita del tasso di occupazione. Siamo un Paese con un tasso più basso dei partner europei. Ma, pur con le contraddizioni strutturali dell’occupazione giovanile e femminile, il tasso complessivo è in crescita da anni e solo la forte crisi del 2008 ha prodotto una sua frenata e un suo calo per qualche anno. Oggi il tasso è tornato ai livelli pre-crisi, anche se con lavori a tempo parziale, contratti a termine e una produttività che cresce di pochi punti.



D’altro canto aumentare la partecipazione al mercato del lavoro è sempre stata indicata come la via maestra per uscire dalle condizioni di indigenza e povertà. Anche con le ultime politiche contro la povertà a colpi di sussidi alle famiglie, si è cercato di abbinare gli interventi con politiche di accompagnamento al lavoro ritenendo questa la soluzione reale al problema della scarsità di reddito.

I dati sul rischio di povertà delle persone relativi ai Paesi europei indicano però che il rapporto fra lavoro e assicurazione contro la povertà non è così chiaro. Anzi, rispetto ai Paesi europei con cui dovremmo confrontarci per analogia nella struttura produttiva, registriamo risultati che possono spiegare molti degli atteggiamenti registrati ultimamente verso il lavoro. Il nostro Paese risulta all’ottavo posto in Europa per numero di persone che sono o rischiano di finire in stato di povertà. Con ciò si intendono per poveri coloro che hanno un reddito complessivo (compresi eventuali sussidi) sotto al 60% della mediana nazionale. In Italia si arriva al 19,1% della popolazione, mentre la media europea è del 16,4%. La Francia, per esempio, è all’11,5%.

Se invece che misurare tale dato sull’intera popolazione, lo valutiamo solo fra i lavoratori dipendenti, siamo il secondo Paese con il rischio di povertà più alto. Addirittura, per mero effetto statistico, in Italia sono meno a rischio povertà coloro che non lavorano, e risultiamo così a fondo classifica per rischio povertà sia fra i disoccupati che fra i pensionali europei. Certo con tassi di rischio più alti che per i lavoratori dipendenti, ma da noi il lavoro non ci assicura più come un tempo contro il rischio povertà.

Fra il 2009 e il 2018 il rischio fra i lavoratori dipendenti è aumentato di 2 punti percentuali (e più per la fascia di età 25-50 anni), mentre per la popolazione complessiva la crescita è stata più contenuta di mezzo punto. Facendo un confronto, un disoccupato tedesco che trova lavoro diminuisce di 8 volte il rischio di trovarsi povero. Nel caso di un disoccupato svedese diminuisce di 10 volte. In Italia scende solo di quattro volte dal 45,9% (probabilità del disoccupato) all’11% (rischio per lavoratore dipendente).

In uscita abbiamo un’altra situazione anomala. Andando in pensione un lavoratore tedesco raddoppia il rischio povertà, mentre per uno svedese quasi triplica. Per un italiano, invece, passa dall’11% al 12%.

Sono dati che gettano una luce nuova su perché il dibattito da noi riguarda più le facilitazioni per le uscite dal lavoro invece di concentrarsi sulle politiche attive del lavoro per accrescere il tasso di occupazione. Bassa produttività, bassa crescita del Pil, bassi salari e conseguentemente bassa qualità dei nuovi posti di lavoro si sommano con carenze dei servizi sociali e tengono lontane dalla partecipazione attiva al mercato del lavoro importanti fasce di popolazione (a partire dalle lavoratrici). I dati strutturali richiedono politiche di intervento profonde e che siano mantenute costanti nel tempo. Non tollerano certo i continui mutamenti che hanno caratterizzato ogni cambio di governo nelle politiche del lavoro degli ultimi anni. A partire dall’impegno nel cercare di accorciare il gap esistente fra scuola e lavoro. Ciò è tanto più importante visto che se c’è un dato positivo dell’indagine sulla povertà è che l’impegno nello studio diminuisce il rischio.

Il rischio di povertà per chi è laureato è sotto il 10% mentre è del 17,3% per i diplomati e oltre il 30% per chi ha solo la scuola dell’obbligo. Insomma, se lavorare di più non è detto che migliori la nostra condizione (a meno di una crescita economica di tutto il Paese), certamente studiare di più aiuta ad assicurarci contro la povertà.