Per gli italiani che vogliono bene al Paese e per qualche politico particolarmente esposto nelle vicende di Governo, ieri deve essere stato un pranzo indigesto. Infatti, più o meno verso le 13, è arrivata quella notizia che scongiuravamo, ma che non avevamo escluso visto l’inviluppo drammatico che da qualche mese il caso sta conoscendo. La multinazionale dell’acciaio Arcelor Mittal – che come noto ha rilevato la ex Ilva – ha fatto sapere di aver notificato ai commissari straordinari e ai sindacati la volontà di rescindere dall’accordo per l’affitto con acquisizione delle attività di Ilva Spa e di alcune controllate.
Naturalmente si tratta di una scelta che segue all’eliminazione dello scudo penale, cosa peraltro esplicitata dall’azienda nel suo comunicato. Al di là di quelle che sono state le reazioni a caldo, iniziamo col dire cosa sta rischiando di perdere il nostro Paese: 1) l’acciaio e la siderurgia sono il cuore dell’industria pesante: l’ex Ilva, in un Paese manifatturiero come l’Italia, è questo cuore; 2) l’Italia sta vedendo allontanarsi gli investitori – che non crederanno ai loro occhi – dal suo sistema economico; 3) perdere Ilva significa perdere l’1,4% del nostro Pil.
Relativamente al punto 3, ci riferiamo all’analisi di Svimez del giugno scorso: da quando l’impianto è stato sequestrato fino ai giorni nostri (2012/2019), sono andati in fumo 23 miliardi di euro di Pil, l’1,35% cumulato della ricchezza nazionale. Dallo studio Svimez è emerso che “l’impatto sul Pil nazionale è pari ogni anno, fra il 2013 e il 2018, a una perdita secca compresa fra i 3 e i 4 miliardi di euro, circa due decimi di punto di ricchezza nazionale. Nel 2019, la ricchezza nazionale bruciata per via della crisi del settore sarà di 3,62 miliardi. In sintesi, fra 2013 e 2019 è stato quindi cancellato Pil per 23 miliardi di euro, l’equivalente cumulato di 1,35 punti percentuali di ricchezza italiana. Inoltre, il modello econometrico della Svimez ha evidenziato un dato mai emerso prima: di questi 23 miliardi di Pil, quasi sette e mezzo (7,3 per la precisione) riguardano il Nord industriale, cioè il Veneto, l’Emilia Romagna, il Piemonte, la Liguria e la Lombardia”.
Come si evince da questi numeri, l’Italia rischia di compromettere un patrimonio che significa futuro. Va tuttavia considerato che, nel pomeriggio di oggi, il Governo incontrerà i vertici di Mittal: auguriamoci che si possa giungere a qualche apertura. Non è impensabile che si possa riportare sui giusti binari una vicenda segnata dal cinismo della politica e dalla sua inadeguatezza: serve necessariamente quella serietà da parte dell’esecutivo che ad oggi è mancata, cosa che va al di là del problema dell’immunità penale. La sensazione è che Mittal chiederà di rivedere l’accordo complessivo che ha fatto con Governo e sindacati, anche circa i livelli occupazionali: la crisi dell’acciaio è forte in tutta Europa. La nomina di Lucia Morselli, da questo punto di vista, è più di un’indicazione.
È tuttavia evidente che la politica ha giocato di fronte al più importante investimento degli ultimi due decenni. Un affare da 5 miliardi di euro, che vale il rilancio della nostra siderurgia e della nostra industria, non può ridursi a oggetto di campagna elettorale e di regolamento di conti dentro i partiti.
Twitter: @sabella_thinkin