Nei tre anni in cui l’economia nazionale è stata impattata dal Covid, il periodo 2020-22, la finanza pubblica del nostro Paese ne ha pesantemente risentito sia dal lato della spesa pubblica, accresciuta in misura considerevole per la maggiore spesa sanitaria, assistenziale e protettiva delle attività economiche (i famosi ristori), sia dal lato delle entrate, penalizzate dal calo degli imponibili a cause delle ripetute chiusure che hanno ridotto i livelli di produzione, i redditi e i consumi. I saldi di finanza pubblica hanno in conseguenza subito un attacco dalle due voci contrapposte, quella delle maggiori spese da un lato e quella delle minori entrate dall’altro, portandosi, sia in valore assoluto che in rapporto al Pil, a livelli mai visti in precedenza in tempi di pace.
Infatti, l’indebitamento della Pa, quello comunemente definito come disavanzo pubblico, è salito dal virtuosissimo 1,5% del 2019 ante-Covid sino al 9,7% del 2020, moltiplicandosi dunque per oltre sei volte, per poi ridursi piuttosto lentamente al 9% nel 2021 e all’8% nel 2022. La media del triennio sfiora il 9%, un valore pari al triplo del parametro originario del Trattato di Maastricht, che era appunto il 3%, e al sestuplo del già ricordato ottimo dato del 2019. Come e in quanto tempo si potrà scendere dall’8% del 2022 sino a ritornare al 3% richiesto da Maastricht e ai valori più bassi che i rigoristi europei torneranno a chiederci non appena la loro voce riprenderà vigore?
Per rispondere occorre fare analisi e previsioni sia dal lato delle entrate pubbliche, sia dal lato della spesa. Ed è opportuno ricordare in premessa che tale analisi sarà duale. Ciò che vale per le entrate purtroppo non vale per le spese. Le entrate, per quasi nove euro ogni dieci di carattere fiscale, hanno infatti una dinamica prociclica: quando il ciclo va bene e l’economia cresce regole di tassazione invarianti produrranno naturalmente un gettito fiscale crescente e se il sistema fiscale è progressivo l’aumento del gettito sarà più che proporzionale rispetto all’aumento degli imponibili.
La spesa pubblica, invece, non ha un carattere intrinseco anticiclico (salvo per limitate componenti come può essere quella della Cigs): quando si è di fronte a recessioni gravi, come quella prodotta dal Covid, va accresciuta “a mano”, adottando provvedimenti specifici a protezione delle parti sociali toccate dalla crisi, e quando l’economia riprende occorre riprendere manualmente il controllo della spesa pubblica, poiché su questo versante non esiste il pilota automatico che sia in grado di frenarla.
È per questa ragione che nell’analisi di oggi ci occupiamo, nella maniera più sintetica e più chiara possibile, della spesa pubblica e delle sue componenti, durante e dopo il Covid, rinviando a due puntate successive l’analisi delle entrate pubbliche e quella dei saldi di finanza pubblica. Ed è utile iniziare ricordando che tutta la spesa di tutte le organizzazioni pubbliche e non di mercato che le regole europee classificano come Amministrazioni pubbliche (oltre 10mila entità di cui circa 8mila sono i Comuni), contabilizzata ogni trimestre dall’Istat nel Conto consolidato delle Ap, è rinconducibile a sole sei macrovoci:
– Cinque di esse riguardano voci di spesa di tipo corrente: sono spese di funzionamento della macchina pubblica di carattere ordinario, sempre presenti per poter far funzionare la medesima. La sesta, che esamineremo per ultima, è l’insieme delle spese in conto capitale, dunque di tipo non ordinario, come possono essere le spese d’investimento o i trasferimenti a beneficiari esterni alla Pa per finalità di finanziamento dei loro investimenti o comunque avente carattere una tantum (come possono essere stati i ristori in favore delle imprese).
– Delle cinque voci di spesa corrente una ha un carattere particolare in quanto difficilmente comprimibile tramite provvedimenti di finanza pubblica: è la spesa per interessi sul debito la quale dipende dallo stock del debito pubblico, che è un dato contabile, e dall’interesse medio pagato annualmente sul medesimo il quale a sua volta dipende dalle condizioni alle quali il debito è stato collocato sul mercato nel tempo. Poiché anche questa voce è particolare la trattiamo come penultima.
Le restanti quattro macrovoci compongono la cosiddetta spesa pubblica primaria (primaria vuol dire al netto degli interessi sul debito) e sono: i) il costo del lavoro dei dipendenti pubblici; ii) l’acquisto sul mercato di beni e servizi intermedi (queste due voci servono per produrre i servizi pubblici della Pa); iii) le erogazioni sociali in denaro (dunque pensioni, assegni e in generale gli strumenti del welfare diversi dalle erogazioni in natura); iv) infine, le altre spese di parte corrente.
Iniziamo allora a esaminare l’impatto del Covid su queste quattro voci e la loro evoluzione nei periodi più recenti, tuttavia iniziando dalle tre più piccole (ma si fa per dire) dato che esse possono essere visualizzate assieme nel Grafico 1 (mentre la maggiore, la spesa per le erogazioni sociali in denaro, è quasi uguale alla somma delle tre). Tutti i dati utilizzati nei grafici che seguono rappresentano, al fine di evitare gli effetti della stagionalità, la somma delle spese dei quattro trimestri terminanti nel trimestre indicato. Pertanto l’ultimo dato disponibile, quello del primo trimestre 2023, riporta la spesa pubblica del periodo aprile 2022-marzo 2023.
Grafico 1 – Le componenti ‘minori’ della spesa corrente primaria
(miliardi di euro nell’anno terminante nel trimestre indicato)
Come risulta evidente dal Grafico 1:
– Il Covid non sembra aver impattato la spesa per il pubblico impiego: essa ammontava a 173 miliardi annui a fine 2019 e all’inizio dello scorso anno era ancora a 177. Poi vi sono stati rinnovi generalizzati dei contratti del pubblico impiego, un atto dovuto a seguito della loro scadenza, e ora la spesa si attesta a 188 miliardi annui.
– Il Covid ha invece prodotto effetti significativi sulla spesa per l’acquisto di beni e servizi intermedi, cresciuta di 15 miliardi dall’inizio del Covid (da 101 nell’anno 2019 a quasi 116 negli ultimi quattro trimestri).
– Lo stesso si è verificato per quanto riguarda le altre uscite di parte corrente, aumentate di 37 miliardi nello stesso periodo (da 113 nel 2019 a quasi 150 negli ultimi quattro trimestri). Esse dovrebbero includere almeno una parte dei ristori e delle spese sorte a seguito del Covid.
– Sommando le tre voci “minori” di spesa pubblica corrente primaria (nel Grafico 2), l’incremento prodotto durante il Covid risulta di 66 miliardi (da 388 nel 2019 a quasi 454 negli ultimi quattro trimestri).
Grafico 2 – Spesa corrente primaria al netto delle prestazioni sociali in denaro
(Miliardi di euro nell’anno terminante nel trimestre indicato)
A questo punto è venuto il momento di introdurre la voce più consistente di tutta la spesa pubblica, quella relativa alle prestazioni sociali in denaro la cui componente principale è la spesa pensionistica (Grafico 3). Essa ha accelerato nella parte iniziale del Covid per poi stabilizzarsi nel corso del 2021, tuttavia è risultata nuovamente in ripresa negli ultimi quattro trimestri. Nell’intero periodo del Covid e seguente è aumentata di quasi 54 miliardi, passando dai 361 nel 2019 ai 415 negli ultimi quattro trimestri.
Grafico 3 – Prestazioni sociali in denaro e altre componenti correnti primarie
(Miliardi di euro nell’anno terminante nel trimestre indicato)
A questo punto possiamo sommare tutta la spesa corrente primaria (Grafico 4), osservando un aumento complessivo dall’inizio del Covid pari a 120 miliardi (da 749 a 869, corrispondente a un +15%).
Grafico 4 – Spesa pubblica corrente primaria – Tutte le componenti
(Miliardi di euro nell’anno terminante nel trimestre indicato)
Restano infine da analizzare le due voci di spesa pubblica non primaria (Grafico 5):
– La spesa per interessi sul debito è passata dai 60 miliardi del 2019 agli 82 degli ultimi quattro trimestri, con un incremento di 22 miliardi e del 36%, destinato a proseguire a causa delle politiche della Bce.
– Infine, la spesa in conto capitale, che ha avuto un incremento enorme il quale va tuttavia adeguatamente spiegato. A tal fine è necessario in primo luogo distinguere al suo interno tra la spesa d’investimento della Pa, cresciuta, opportunamente dato la sua funzione di contrasto alla crisi, dai 41 miliardi del 2019 ai 53 più recenti, e le altre uscite in conto capitale, aumentate in maniera abnorme, ma in realtà soprattutto per una ragione di differente contabilizzazione dei crediti d’imposta sui bonus edilizi, dai 22 miliardi del 2019 ai 98 degli ultimi quattro trimestri (+77 miliardi e +355%…)
Riguardo a quest’ultima componente è opportuno richiamare quanto riportato nell’ultima relazione del Governatore della Banca d’Italia: “A consuntivo, l’indebitamento netto del 2022 è stato pari all’8,0 per cento del Pil. Il valore, decisamente più alto di quanto precedentemente programmato, riflette le modifiche al trattamento contabile di alcune agevolazioni fiscali introdotte dalla Legge di bilancio per il 2020 e dal DL 34/2020, i cosiddetti Bonus facciate e Superbonus 110 per cento… In particolare la riclassificazione dei due bonus come crediti di imposta ‘rimborsabili’, in virtù del loro regime di cedibilità, ha portato a registrare i benefici fiscali contestualmente all’esecuzione dei lavori edilizi (contabilizzazione per competenza), anziché alla data successiva in cui il credito viene utilizzato in compensazione di un debito di imposta (contabilizzazione per cassa). Secondo le valutazioni contenute nel Def 2023, in assenza di queste revisioni l’indebitamento netto si sarebbe collocato al 5,4 per cento, due decimi al di sotto di quello programmato”.
In sostanza con le precedenti regole anche questi bonus per l’edilizia avrebbero, come tutti i precedenti, ridotto le entrate pubbliche negli esercizi in cui i loro titolari li avessero utilizzati per ridurre le imposte dovute. Invece, risultando cedibili e dunque “rimborsabili”, si sono trasformati da minori entrate future in maggior spesa attuale (contabilizzata in conto capitale in quanto avente carattere di straordinarietà). Poiché il loro impatto è stato stimato in 2,6 punti di Pil, si tratta in conseguenza di circa 50 miliardi su base annua (dei 77 di incremento nella voce di spesa prima ricordata).
Grafico 5 – Le altre componenti della spesa pubblica: interessi sul debito e uscite in c/capitale (Miliardi di euro nell’anno terminante nel trimestre indicato)
Arriviamo a questo punto a contabilizzare l’insieme degli effetti sulla spesa pubblica complessiva nel periodo del Covid e posteriore. Come illustrato nel Grafico 6, essa ha superato nella somma degli ultimi quattro trimestri i 1.100 miliardi, oltre 230 in più rispetto al 2019 ante-Covid, corrispondenti a un +25,4%. In rapporto al Pil, la spesa pubblica totale è passata nello stesso periodo dal 48,5% al 57%, con un incremento di 8,5 punti percentuali i quali, anche detraendo gli effetti della contabilizzazione dei bonus, restano pur sempre quasi 6 punti. Questo è il problema principale di finanza pubblica che si dovrà affrontare nei prossimi anni: ricondurre il peso della spesa pubblica nuovamente al di sotto del 50% del Pil, rimuovendo l’eccesso di spesa che è stato necessario accettare per far fronte alle conseguenze economiche del Covid. Ci si riuscirà? Oppure emergerà, come in tutte le precedenti occasioni in cui il peso dello Stato nell’economia è cresciuto, che non è possibile tornare indietro?
Grafico 6 – La spesa pubblica complessiva
(Miliardi di euro nell’anno terminante nel trimestre indicato)
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