In questa primavera del 2021 l’economia italiana rimane ancora rallentata dal contagio da Covid-19. Secondo il sentiero di crescita delineato dal Documento di economia e finanza (Def 2021) varato la scorsa settimana, solo nel 2023 il Pil ritornerà al di sopra del livello pre-crisi.
L’Italia è tra i Paesi con i più pesanti effetti sanitari ed economici della pandemia: nel confronto tra 37 economie avanzate, l’Italia è al 6° posto per decessi Covid-19 in rapporto alla popolazione e al 34° posto per dinamica del Pil nel biennio dell’epidemia, mentre è in ritardo nelle vaccinazioni, collocandosi al 16° posto per tasso di vaccinazione e scendendo al 18° per velocità di vaccinazione (dati al 20 aprile 2021, vaccinazioni e nuove vaccinazioni negli ultimi 7 giorni in rapporto agli abitanti). Su questo fronte sono pesanti gli effetti dello scenario della limitata efficacia dei vaccini su varianti del Covid-19, un rischio che nel Def è valutato pari a 1,4 punti di Pil per quest’anno e 1,7 punti nel prossimo.
Sul mercato del lavoro si misurano già pesanti effetti della recessione: a febbraio 2021 si registra un calo di 945 mila occupati, il 4,1% in meno su base annua. Calano del 6,8% i lavoratori indipendenti, pari a 355 mila unità in meno, la peggiore flessione dal 2005, mentre cedono del 12,8% i dipendenti a termine, pari a 372 mila unità in meno. Anomala la crescita di 717 mila inattivi: la profondità della crisi e i provvedimenti restrittivi scoraggiano la ricerca di lavoro.
Gli effetti della pandemia si riverberano sulla stabilità della struttura imprenditoriale italiana: il 45,4% delle imprese è esposto a rischio strutturale, la crisi ne mette a repentaglio l’operatività, e un ulteriore 25,2% è in condizioni di fragilità, risultando particolarmente colpito dalla crisi. A seguito dello straordinario prosciugamento dei fondi liquidi provenienti dalla clientela – nel 2020 si stima una perdita di ricavi per le imprese italiane non inferiore a 400 miliardi di euro – più di un terzo (34,1%) delle imprese rimane esposta, almeno fino all’estate, a seri problemi di liquidità. Gli interventi pubblici per contrastare la carenza di fondi liquidi sono stati ingenti. Sui prestiti alle imprese le moratorie sono di circa 130 miliardi di euro e mentre le garanzie pubbliche sono di 152,6 miliardi di euro. Le imprese hanno sostituito i fondi liquidi provenienti dal ciclo dei ricavi con prestiti bancari. A febbraio 2021 i prestiti alle imprese sono in aumento del 7,6% (+7,3% nel mese precedente).
Nell’ultimo Bollettino economico della Banca d’Italia si evidenzia che nel secondo semestre del 2020 aumenta la domanda di fondi coperti da garanzia, a fronte di una domanda sostanzialmente invariata per i prestiti non garantiti. Va ricordato che la sostituzione di liquidità proveniente dai pagamenti dei clienti con prestiti bancari influisce negativamente sugli oneri finanziari e la creazione di valore aggiunto, mentre il maggiore indebitamento richiederà del tempo per essere completamente riassorbito dai bilanci delle imprese.
Raccogliendo le preoccupazioni del mondo delle imprese, nel Documento di economia e finanza si indica che nel prossimo decreto legge, contenente nuove misure per il sostegno alle imprese e il rilancio dell’economia, utilizzando il nuovo scostamento di bilancio per circa 40 miliardi di euro, saranno estese e rafforzate moratorie e garanzia dello Stato sui prestiti. L’economia italiana rimane imbrigliata da un eccesso di risparmio: mentre nel 2020 la spesa per consumi e investimenti si riduce di 157 miliardi di euro, negli ultimi dodici mesi i depositi bancari di famiglie e imprese sono aumentati di 162,3 miliardi di euro.
Lo sforzo fiscale determinato dalle politiche anticicliche nelle economie avanzate è ingente: il debito pubblico, che per quest’anno è previsto arrivare al 159,8% del Pil, sui massimi storici di circa cento anni fa, risulta essere superiore di 294 miliardi di euro rispetto al quadro di finanza pubblica delineato prima dello scoppio della pandemia. L’impulso di bilancio in risposta alla pandemia è stato straordinario, ma per l’Italia pesa il vincolo dell’alto debito pubblico: secondo l’ultimo confronto internazionale proposto al Fondo monetario internazionale evidenzia che gli spazi fiscali – spesa aggiuntiva e minori entrate – in rapporto al Pil in Italia sono di oltre due punti di Pil inferiori a quelli della Germania, sono la metà di quelli del Regno Unito e solo un terzo di quelli utilizzati negli Stati Uniti.
La vischiosità delle entrate fiscali rispetto alla repentina caduta del ciclo economico nel 2020 ha determinato una crescita della pressione fiscale, che registrerà una riduzione a partire dal 2021. Nel 2020 la caduta degli investimenti privati per 31 miliardi di euro è stata solo in parte compensata dall’aumento di 2,8 miliardi di investimenti pubblici; nonostante il recupero nell’ultimo biennio, nel 2020 permane un gap, valutato a prezzi correnti, di 5,8 miliardi di euro di investimenti pubblici rispetto a dieci anni prima. L’intreccio tra gli interventi fiscali e l’utilizzo delle risorse di Next Generation Ue – entro il 30 aprile il Governo dovrà presentare il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) all’Unione europea – rilancerà i processi di accumulazione di capitale. Solo un più sostenuto ritmo degli investimenti, grazie ai più elevati moltiplicatori fiscali, può generare la maggiore crescita necessaria per mantenere la sostenibilità di lungo periodo del debito pubblico. Qualora il tasso di crescita deragliasse dal sentiero previsto, al termine degli acquisti di titoli da parte della Bce, la riattivazione dal 2023 delle regole europee sui bilanci e un probabile rialzo dei tassi di interesse metterebbe pericolosamente sotto pressione l’elevato debito pubblico italiano.
Ma non basta investire, servono qualità ed efficacia nella gestione dei progetti. Analisi pubblicate dalla Banca d’Italia evidenziano elevati tempi di realizzazione delle opere pubbliche e costi eccessivi possono ridurre di oltre un terzo gli effetti moltiplicativi degli investimenti pubblici. La qualità della pubblica amministrazione e la riduzione della burocrazia rappresentano fattori chiave di successo della politica fiscale e del Pnrr, rispetto ai quali il nostro Paese deve recuperare forti ritardi. Vi è un eccessivo peso delle complessità amministrative per l’86% delle imprese in Italia – seconda nell’Unione europea dopo la Romania – ben 28 punti superiore al 58% della media dell’Ue. Gli indicatori elaborati dalla Banca Mondiale sulla burocrazia fiscale, la più pervasiva, vedono l’Italia all’ultimo posto tra i 27 paesi dell’Unione europea, tre posizioni dietro al 24° posto di dieci anni prima, rendendo le politiche della semplificazione fiscale dell’ultimo decennio delle vere e proprie “grida manzoniane”.
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