Con il recente tour europeo, il Presidente cinese Xi Jinping puntava a fare della Cina il player principale di questa fase convulsa della storia delle relazioni internazionali. Migliorare i rapporti commerciali con l’Unione europea, allentare i legami europei con gli Usa e aumentare il livello delle relazioni bilaterali con Serbia e Ungheria. Questi erano gli obiettivi di Xi che, al contempo, voleva legittimarsi come il soggetto più credibile con cui trattare la fine delle ostilità in Ucraina. Soltanto in Serbia e Ungheria il Presidente cinese ha potuto raggiungere i suoi obiettivi, mentre sugli altri fronti ha dovuto incassare l’annuncio dell’Ue circa l’aumento dei dazi sui veicoli elettrici e il comunicato finale dei Paesi del G7 con cui hanno irrigidito la loro postura nei confronti di Pechino.
A questi insuccessi la diplomazia cinese ha risposto rafforzando la sua strategia che mira a costruire legami più saldi con il Global South e con un atteggiamento più aggressivo nel Mar Cinese Meridionale, dove la tensione con le Filippine rischia seriamente di raggiungere un punto di non ritorno. Inoltre, è difficile pensare che il viaggio di Putin in Corea del Nord, dove il Presidente russo si è assicurato il sostegno militare del regime di Pyongyang, sia avvenuto senza il consenso del Governo cinese.
In una fase caratterizzata da una incertezza radicale e instabilità è problematico ragionare in termini di causa ed effetto, ma non può sfuggire agli osservatori il fatto che Pechino ha individuato nei paesi del Global South i suoi interlocutori privilegiati e che non intende recedere dal perseguimento di una posizione egemonica nel Mar Cinese Meridionale. Il recente viaggio del Premier cinese Li Qiang in Malesia testimonia un ulteriore salto di qualità nella questione di Taiwan. Ormai la diplomazia cinese non si limita più a rivendicare la “One China Policy”, ma parla apertamente di “raggiungimento della riunificazione nazionale” raccogliendo, in questo caso, il sostegno del Governo malese che è un attore di grande importanza dello scacchiare del sudest-asiatico.
Altri leader del Global South avevano espresso una sostanziale vicinanza alle rivendicazioni della Repubblica Popolare Cinese circa la questione di Taiwan, alcuni in modo più vago come il Re del Bahrein Hamad e il Premier pakistano Shehbaz Sharif, altri in modo più aperto come Presidente della Guinea Equatoriale Teodoro Obiang Nguema Mbasogo e il leader egiziano Abdel Fattah el-Sisi che come registra la testata “Nikkei Asia”, hanno sostenuto il principio di “riunificazione completa”.
In definitiva, di fronte al ricompattarsi dei Paesi occidentali, la Cina ha assunto una postura più assertiva circa la gestione del dossier Taiwan, arrivando a pretendere dai suoi partner un chiaro sostegno alla riunificazione. Come fanno osservare molti analisti, il supporto manifestato da molti leader del Global South può essere funzionale a un posizionamento tattico figlio di questa fase di incertezza e potrebbe venire a mancare in caso di una guerra aperta, ma il processo di costruzione di due blocchi contrapposti sembra ormai consolidato e all’orizzonte non appaiono occasioni per trovare punti d’incontro. Come se non bastasse a complicare il quadro si è aggiunto anche insediamento, avvenuto lo scorso mese, del nuovo Presidente di Taiwan Lai Ching-te. il quale ha ribadito con forza il principio di sovranità e la difesa dei valori costituzionali dell’isola.
La recente accusa fatta da Pechino agli Usa sulla vendita di armi a Taiwan mette sul tavolo la questione più calda dei prossimi mesi: il Governo cinese vuole vedere fino a che punto gli americani sono pronti a sostenere “l’isola ribelle” ed è facile prevedere che le provocazioni nello stretto continueranno ad aumentare. Un gioco pericoloso che fa essere pessimisti circa le prospettive di pace nello stretto di Taiwan.
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