La crescita economica non è più la priorità del governo cinese. Il Congresso Nazionale del Popolo, il ramo legislativo del Parlamento cinese, riunito nella assemblea annuale chiamata “Due sessioni”, ha reso evidente quali siano i reali obiettivi che la leadership di Xi Jinping intende perseguire. Le dichiarazioni del premier cinese Li Qiang testimoniano un sostanziale ridimensionamento degli obiettivi di crescita che sono “circa” – cosa intenda con circa non è dato sapere – del 5%, una cifra significativa, ma ben lontana dall’8% programmato nella fase di espansione. Molti analisti concordano nel fatto che anche il 5% è un obiettivo troppo ambizioso da raggiungere e le criticità ancora troppo grandi per essere risolte. L’economia cinese necessiterebbe di un intervento drastico in grado di favorire un cambio di direzione nella politica monetaria e fiscale, ma le autorità a cui spetta la regolamentazione del mercato non sembrano essere di questo avviso, anche a costo di costringere la società cinese a stringere ulteriormente la cinghia. In definitiva, il governo cinese è deciso a continuare sulla strada della repressione finanziaria facendo pagare ai risparmiatori cinesi la crisi del mercato immobiliare, condannandoli ad ottenere bassi rendimenti per i loro investimenti.



Chi si aspettava un pacchetto di stimoli e l’aumento degli investimenti onshore è rimasto deluso con buona pace di chi si è esposto con le banche provinciali. L’altra faccia di questo rigidissima regolamentazione riguarda il gran numero di ostacoli posti anche a gruppi che promettono grandi rendimenti come l’impresa tecnologica Ant Group e il colosso della moda Shein, a dimostrazione che quello che davvero interessa è la messa in sicurezza del sistema finanziario nazionale anche se la deflazione sottoporrà a un grande stress la società cinese che, vale la pena di ricordare, è già alle prese con salari sempre più bassi.



In uno scenario del genere la strategia cinese punta soprattutto a porre un argine alla fuga di capitali lavorando a favore di una riduzione del divario esistente con il rendimento delle obbligazioni USA. Chi crede che la Banca Popolare Cinese voglia uno yuan svalutato per favorire le esportazioni non vede che l’economia cinese sta cambiando pelle, metabolizzando il fatto che i mercati giapponesi e soprattutto quelli indiani capitalizzano le difficoltà di Pechino. Sembrerebbe che il governo cinese abbia imparato bene la lezione della guerra in Ucraina e si stia impegnando a “neutralizzare” qualsiasi minaccia possa venire dalla militarizzazione dei mercati finanziari. Non è un caso che più volte Xi Jinping abbia rimarcato l’importanza di perseguire la sicurezza del sistema, rendendolo più impermeabile a ogni forma di influenza straniera.



Parallelamente alla sussunzione a tutti i livelli della macchina statale da parte del Partito – dinamica tipica dei regimi totalitari –, l’economia viene messe al servizio della logica di potenza sacrificando la crescita economica sull’altare del controllo dell’autosufficienza e quindi della chiusura a ogni attività finanziaria potenzialmente pericolosa. Un discorso che vale anche per le importazioni che il governo cinese intende ridurre mirando, al contempo, a guadagnare quote sempre più grandi nei mercati dei Paesi in via di sviluppo, che stanno maturando un rapporto di dipendenza nei confronti delle esportazioni di capitali di Pechino. L’enfasi posta dal Congresso Nazionale del Popolo sulle “nuove forze produttive di qualità” manifesta il campo nel quale la Cina intende sfidare gli USA. Pechino punta a raggiungere la superiorità tecnologica nei settori strategici.

In una dichiarazione rilasciata a margine del Congresso Nazionale del Popolo il premier Li Qiang ha sostenuto che “L’intelligenza artificiale è un motore vitale per lo sviluppo di nuove forze produttive di qualità” e che è necessario “sforzarsi per superare i rivali” nei campi della potenza di calcolo, della sperimentazione e dell’implementazione di nuove tecnologie all’avanguardia. Dichiarazioni che non hanno catturato l’attenzione degli osservatori nostrani, ma che fanno capire chiaramente gli obiettivi di Pechino. A riguardo risulta particolarmente significativo il fatto che alla stretta regolatrice nel campo economico corrisponde una strategia diametralmente opposta nel campo tecnologico, dove il governo intende dare ampi margini di manovra a soggetti pubblici e privati. Il governo ha parlato chiaramente di un regime normativo più permissivo e di una riduzione delle interferenze governative nel campo della ricerca. Una maggiore libertà per le imprese impegnate nello sviluppo di tecnologie dal valore strategico che è l’altra faccia della medaglia di un contesto in cui si può applicare l’Intelligenza Artificiale senza grande rispetto per la tutela delle libertà individuali e grazie alla raccolta disinvolta di dati sensibili.

A ben vedere, i “ricchi scenari applicativi” menzionati da Li Qiang e di cui godrebbe lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale in Cina sono tutti in questi ampi margini di manovra non riscontrabili altrove. Al momento non è possibile dire chi fra USA e Cina sia avanti nello sviluppo delle tecnologie abilitanti, ma è ormai sempre più evidente che la sfida per la leadership globale non verrà combattuta con il Pil e investimenti, ma a colpi di Chip e Bit vedendo fronteggiarsi quello che la studiosa Aun Bradford ha definito gli “Imperi digitali”.

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