“Un impegno concreto – Meno tasse per tutti”. I grandi manifesti con la faccia rassicurante di Silvio Berlusconi hanno inondato le strade italiane in quel 1994 che ha segnato l’inizio di una nuova era politica dopo lo tsunami di Tangentopoli.

Una mano sul cuore e una mano sul portafoglio sono rimasti i simboli di un impegno politico che fino all’ultimo minuto non si è più fermato. Il cuore: “L’Italia è il Paese che amo” era il motivo conduttore del suo spot televisivo sulla discesa in campo. Il portafoglio: quella rivoluzione liberale che doveva liberare le migliori risorse di un Paese che vedeva la politica affogare negli interessi di parte e nella corruzione. Forse mai come in Berlusconi, tuttavia, i giudizi hanno utilizzato il metodo del manicheismo. O tutto bene o tutto male.



Sarebbe, tuttavia, ingeneroso sposare pregiudizialmente l’una o l’altra tesi, soprattutto nel campo della politica economica. Non sono poche, né di poco significato le riforme positive che il Cavaliere ha messo in campo, soprattutto per esaudire la promessa di ridurre le tasse. Ha così soppresso l’Ici sulla prima casa, ha sostanzialmente tagliato le tasse di successione, ha aumentato le pensioni minime, ha avviato con Maroni una significativa riforma della previdenza, ha promosso la Legge Biagi per liberare dai vincoli il mercato del lavoro senza ridurre le garanzie.



Certo, gli effetti di misure di questo tipo sono difficilmente misurabili a livello di impatto economico anche perché in molti casi l’obiettivo principale, non sempre realizzato, era quello di consolidare il consenso. Resta comunque il fatto che gli anni del centro-destra, in particolare dal 1996 al 2001, non hanno fatto segnare particolari segni positivi per un Pil che è cresciuto quasi unicamente per gli ultimi anni di inflazione prima dell’avvio della moneta unica. Così com’è avvenuto negli anni successivi con i Governi di centro-sinistra che non hanno certo brillato per la capacità di dare una spinta all’economia.



Ma il più grande limite delle iniziative volute da Berlusconi sul fronte dell’economia è costituito dalle leggi ad personam che hanno contraddistinto tutti i Governi trainati dal centro-destra. Leggi che hanno riguardato da vicino lo scenario economico. Si va infatti dalla depenalizzazione del falso in bilancio, alla prescrizione breve, a diversi condoni fiscali, alle leggi sul settore televisivo e per i conflitti di interesse. Tutte leggi di portata particolare e che peraltro hanno comportato di distrarre dai temi più importanti le poche risorse della politica.

Anche per queste ragioni il più grave tallone d’Achille dell’economia di Berlusconi ha un solo nome: la difficoltà di consolidare la fiducia verso il Governo e quindi verso il Paese. Basta ricordare quanto è avvenuto nell’autunno del 2011 quando il 12 novembre il cavaliere sale al Quirinale e rassegna le dimissioni dopo 1.287 giorni (3 anni, 6 mesi e 8 giorni) di Governo e dopo aver perduto la maggioranza alla Camera sul voto sul rendiconto generale dello Stato l’8 novembre 2011 e aver perso credibilità sul fronte della finanza pubblica con lo spread a livelli record. Arriva l’incarico a Monti e va dato atto allo stesso Berlusconi di aver comunque sostenuto il nuovo Governo tecnico varato da Giorgio Napolitano.

Luci e ombre, quindi, com’è naturale per un protagonista degli ultimi trent’anni della vita italiana. E dipende dalla prospettiva di ciascuno il mettere in primo piano i lati positivi, come il convinto europeismo e la volontà di ridurre il peso dello Stato, piuttosto che quelli negativi, come gli interessi privati nella grande politica e il prevalere delle tattiche di breve periodo sulle visioni strategiche di cui il Paese aveva e continua ad aver bisogno.

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