Caro direttore,
da quattro anni seguo con stupore e gratitudine l’esperienza sorta attorno alla messa dei malati online (I Quadratini), avendo dovuto attraversare anch’io la sfida di una malattia oncologica. Un’esperienza che ha significato per me trovare una compagnia di amici che ogni giorno ti testimoniano che vivere è possibile e amabile, in qualsiasi circostanza.
Negli ultimi tempi sono stata contattata da alcuni studenti universitari di medicina e infermieristica che, preparando una mostra su Cicely Saunders (promotrice degli hospice e delle cure palliative) hanno sentito la necessità di incontrare anche la nostra esperienza di malati.
Così ci siamo ritrovati, un gruppetto di ragazzi e alcuni “Quadratini”, una sera a cena in casa di una di noi. Dopo le prime presentazioni un po’ imbarazzate (non ci conoscevamo e tra noi c’era anche un notevole divario generazionale) i ragazzi hanno cominciato a porre le loro implacabili domande.
Come la malattia ha cambiato il tuo modo di vederti? Che cos’è per voi la dignità di un malato? Come si può essere attenti ai pazienti e ai loro bisogni senza rimanere ricattati dai ritmi del lavoro in reparto e delle tante cose da fare proprie dell’assistenza?
Ogni tentativo di risposta in realtà è un volto, un nome, una storia che parla di dignità, di speranza, di cura. Tante facce che abbiamo conosciuto, con cui tuttora condividiamo un cammino, risposte che non spiegano, ma illuminano la strada della loro futura professione. Maura, un’amica non vedente, racconta con ironia che il suo modo di vedere è cambiato, nel senso che non ci vede proprio, ma la malattia ha tirato fuori in lei in maniera spudorata il desiderio che c’è in tutti, anche se in altre circostanze uno può permettersi di accontentarsi.
Il desiderio di chi è malato e di chi è sano è il medesimo, ciò che cambia è che la malattia te lo fa tirare fuori, ma può diventare motivo di cammino solo se qualcuno accetta di starci di fronte con te.
Come è successo alla nostra amica Laura, giovane mamma di due bimbi piccoli, arrivata alla messa molto arrabbiata con la vita, ma che poi è cambiata pian piano, e gli ultimi giorni della sua vita diceva: “Quando la morte arriverà voglio che mi trovi viva”. Fino a desiderare di andare a vedere il Paradiso.
O come Enrico, che ha due gemelli con disabilità gravissime sia cognitive che motorie e racconta di aver vissuto i primi quattro anni lavorando come un matto per scappare da quella situazione.
Ma un giorno a tavola, mentre lui e sua moglie imboccavano i due gemelli, lui, guardandola, si accorge che lei, pur facendo la stessa cosa, non ha dentro quella rabbia che ha lui riguardo alla situazione dei suoi figli.
I suoi occhi sono contenti e allora dice a se stesso: “Io quegli occhi li desidero per me!”. È l’inizio di un cammino. Non solo per chi è malato, ma anche e soprattutto per chi lo accompagna.
L’alternativa, ci dice il marito di Maura, è vedere quello che hai davanti oppure chiudere gli occhi e tenere le distanze. Puoi tenere le distanze o immergerti! Le esperienze raccontate gridano tutte la stessa cosa: se l’altro che è vicino a te ti percepisce solo come un problema, tu sei destinato a cedere allo scoraggiamento, prima o poi; ma se chi ti è vicino ti guarda per quello che tu sei nel tuo profondo, cosa che la malattia non può cambiare, allora può succedere di tutto.
Come succede a Carmelo, malato di leucemia, che all’ultimo ricovero d’urgenza si fa un selfie con la coperta termica dorata in cui lo hanno avvolto e scrive agli amici: “per ricordarmi che la vita è un dono sono stato messo nella carta da regalo”. Una persona malata grida con tutta sé stessa: “Io non sono la mia malattia”.
Come Enrica, malata di SLA, che scrive al computer per i giovani che ci interrogano: “La vita val sempre la pena di essere vissuta a pieno, anche se non nego che guardando il crocifisso un paio di volte gli ho detto: Che cosa vuoi ancora da me?”.
Come Cristina: da dieci anni vive appesa alla riuscita di una terapia sperimentale che scongiuri il ripresentarsi di un aggressivo tumore al cervello per cui le erano stati dati due anni di vita. Cristina racconta dei giorni in cui andando in ospedale per la chemio, lungo la strada costeggiata da campi fioriti, restava stupita di come giorno per giorno il giglio diventasse bocciolo e poi come questo diventasse fiore. La realtà assume tutta una nuova intensità, un nuovo valore.
E suo marito aggiunge: “Si può vivere questo solo giorno per giorno, ora per ora, senza andare avanti col pensiero e la preoccupazione, per non perdersi il presente che c’è già”.
Questo riconoscimento della dignità dell’altro si acquisisce nel fare un passo con lui, semplicemente, fosse anche solo quello della radiologa che percependo la tensione della paziente per un esame invasivo le permette di tenere con sé la boccetta degli oli essenziali contro l’ansia. Non è una questione di personalità o di temperamento.
A dispetto di tutto quello che a volte viene insegnato o consigliato, anche l’operatore sanitario riconosce la dignità quando si lascia coinvolgere, non emotivamente, ma facendosi interrogare dalla domanda di vita di quel paziente che è anche la sua.
È ancora Maura che risponde all’ultima domanda: “Noi il rapporto con l’infermiere o col medico non lo subiamo, ma lo viviamo. Il modo in cui tu fai il tuo lavoro, anche se in dieci minuti, è determinante. Come tu chiami un paziente, come lo guardi, o come stai con lui non è indifferente. Tu in quei pochi minuti che hai a disposizione sei l’infermiere o il medico di Maura. La vera differenza sta in cosa tu (infermiere/medico) stai cercando”.
L’estraneità dell’inizio della cena è sciolta. Raccontandosi ci si è scoperti tutti, malati, familiari, aspiranti medici e infermieri, pieni di quel desiderio di vita che ci spinge ogni mattina ad alzarci dal letto. La vera sfida per tutti non è tanto cosa io posso fare per te, ma come la tua vita interroga la mia. Posso prendermi cura di te solo accettando di prendermi cura del mio desiderio di felicità, che la tua malattia e il tuo bisogno mi sollecita. Solo così, come ha testimoniato con la sua opera Cicely Saunders, aggiungeremo vita ai giorni e non appena giorni alla vita.
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