Chernobyl, 1986, in Ucraina; Fukushima, 2011, in Giappone; Zaporizhzhia, oggi, ancora in Ucraina. I primi due sono i siti dei disastri nucleari più importanti dalla fine della Seconda guerra mondiale, dopo le bombe sganciare su Hiroshima e Nagasaki, il terzo al momento rappresenta solo una minaccia incombente sull’umanità. Ma anche Fukushima ritorna a far parlare di se: è solo di qualche giorno fa la decisione dell’ente mondiale che sovrintende la dismissione della centrale di autorizzare il rilascio in mare dell’acqua contaminata usata in questi anni per raffreddare i reattori. Strana coincidenza per questi due Paesi cosi lontani, anche culturalmente, ma che hanno in comune la malasorte di aver conosciuto la tragedia di una catastrofe nucleare.
In effetti guardare I tre giorni dopo la fine, la serie tv prodotta da Jun Masumoto per Netflix (8 episodi di circa 1 ora ciascuno), serve a capire meglio e senza partigianeria i rischi ancora elevati insiti nella gestione delle centrali a fusione nucleari di prima generazione. Che poi sono le uniche esistenti. E se dopo la visione di Chernobyl (una bella produzione HBO del 2019) molti hanno potuto addebitare le colpe maggiori all’inefficienza sviluppatasi nelle crepe del regime comunista ancora dominante in Unione Sovietica, quello che è accaduto in Giappone può essere spiegato solo con la pericolosità delle centrali stesse, esposte a rischi naturali di cui ormai sappiamo di non poter più prevedere né i tempi, né la portata.
Alle 14:46 dell’11 marzo 2011 un forte terremoto di magnitudo 9,1 della scala Richter – per una durata di oltre 6 minuti e a meno di 100km dalla terraferma – colpì il Giappone. Fu in assoluto il quarto terremoto più forte mai registrato. La scossa provocò l’immediato spegnimento automatico dei reattori della centrale atomica di Fukushima Dai-ichi, che alimentava gran parte del Paese, compresa la capitale Tokyo. Al terremoto seguì anche un potente maremoto, con onde di oltre 14 metri, che colpì in pieno la centrale, danneggiando in modo irreversibile i sistemi di raffreddamento. Il maremoto provocò circa 20.000 morti.
Ma i tre giorni successivi all’arrivo della gigantesca onda furono, per certi aspetti, molto più difficili per il Giappone e per gli altri Paesi dell’area circostante. Infatti, la difficoltà di mettere sotto controllo la centrale rese concreto con il passare delle ore lo spettro di un’esplosione dei reattori, e la conseguente distruzione di ogni persona, animale e cose in un raggio di oltre 200km. Se ciò fosse accaduto si sarebbe reso il Giappone un Paese invivibile per decenni. In quei tre giorni si concentrarono atti di eroismo e gravi inefficienze organizzative, impensabili in un Paese evoluto come il Giappone. Ma emersero anche gravi responsabilità politiche, piegate a biechi interessi economici, e preoccupanti incompetenze della Toepco, la compagnia privata proprietaria e responsabile della gestione della centrale atomica.
La ricostruzione è puntuale anche se romanzata, di un realismo affascinante. È ovviamente in lingua originale e può essere seguita solo grazie ai sottotitoli. Ma come spesso capita, è proprio questo il motivo principale della sua bellezza e autenticità, della capacità di trasmettere le sensazioni e ogni dettaglio della vicenda umana che interessò tutti i protagonisti, fossero eroi o uomini deboli e senza dignità. Dopo un estenuante combattimento durato tre notti e tre giorni, le squadre di soccorso impegnate a fronteggiare l’esplosione, utilizzando l’acqua salata raccolta proprio grazie al maremoto intorno ai depositi, riuscirono a rimettere sotto controllo la fase di raffreddamento. Si evitò così la catastrofe e furono contenuti i danni per milioni di giapponesi.
Come è stato per Chernobyl anche I tre giorni dopo la fine rimarrà un atto di accusa verso una tecnologia che rivela ancora oggi un’elevata pericolosità e, nonostante le assicurazioni, appare in particolari situazioni limite finire fuori controllo. Errori umani come in Unione Sovietica nell’86, o un violento evento naturale come il terremoto a Fukushima nel 2011, o una guerra con armi sempre più potenti come quella che si sta combattendo in Ucraina, possono generare problemi che non è possibile prevedere con conseguenze invece assai prevedibili.
Questo è il motivo che ha condotto quasi tutti i Paesi sviluppati del mondo ad avviare un piano di dismissione globale di queste centrali. Questo non vuol dire che si vuole impedire la ricerca di soluzioni più sicure e di impianti di nuova generazione, che probabilmente saranno realizzati solo fra 10 o 20 anni. Tutto ciò serve a ricordare che se nel XIX e XX secolo lo sviluppo economico ha dominato ogni altra scelta, perpetrando consapevolmente danni ambientali irreversibili al pianeta, il XXI secolo – lo si voglia o no – sarà il secolo che avvierà non solo la dismissione del nucleare, ma il ripristino del nostro ambiente. Consapevoli che o lo faremo da soli o ci penserà la natura stessa, facendo a meno di noi.
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