I veleni della guerra sono arrivati anche qui. E non sono quelli un po’ caricaturali legati a eventuali tipi di bandiere ammesse o benvenute alle manifestazioni per il 25 aprile. E nemmeno quelli che scorrono negli studi dei talk-show televisivi con cadenza ormai quotidiana. Qui la cosa è seria. Tremendamente seria. Perché se era assolutamente preventivabile che il fattore Russia entrasse a gamba tesa nelle elezioni presidenziali francesi, si sperava che un Paese alle prese con una crescita economica a dir poco azzoppata e una dipendenza energetica che apre scenari da recessione conclamata per il terzo e quarto trimestre dell’anno avesse il buongusto – o, quantomeno, l’istinto di sopravvivenza – di evitare strumentalizzazioni. Così non è stato: l’affaire Conte-Barr-Vecchione riesploso a mezzo stampe ha il sapore della resa dei conti. Con coté di nemmeno troppo velate allusioni a nascite eterodirette del governo Conte II su pressioni di chi vedeva l’Italia giallo-verde pericolosamente sbilanciata a favore dell’asse Cina-Russia. Nemmeno a dirlo, saltano fuori cene e incontri, dossier e viaggi. Il solito armamentario. Cui però va a unirsi altro. 



In primis, quel memorandum d’intesa sulla Nuova Via della Seta che il governo Conte I siglò in maniera plateale e che il Dipartimento di Stato annotò nell’agenda degli sgarbi con una matita rosso fuoco. E i conti, prima o poi, vanno saldati. C’è poi la missione dei medici russi nella Bergamasca, di cui stranamente – proprio ora – salta fuori un altro documento di intesa fra Governo italiano e russo, dal quale scopriamo addirittura che il Cremlino riteneva giusto che vitto e alloggio dei suoi sanitari fossero a carico del Paese che li ospitava e che beneficiava dei loro servizi. Segreti, a detta di qualcuno. Perché l’aver messo nero su bianco la necessità di utilizzo di mezzi speciali in luoghi infettati, immediatamente si configura come ipotesi di spionaggio. E balzano alla mente le scene dei film americani con i furgoni delle lavanderie utilizzati dalle agenzie di intelligence per mimetizzarsi, dopo averli trasformati in stazioni di ascolto mobili. 



Insomma, un enorme intrigo internazionale. Che, ovviamente, esplode ora che la Russia è terminata nel mirino del mondo. Pur essendo i fatti in questione risalenti a oltre due anni fa. Si sa, tutte coincidenze. Come è una coincidenza che in piena ultima settimana di campagna elettorale in vista del ballottaggio di domenica, torni a galla lo scandalo dei finanziamenti europei indebitamente intascati da Marine Le Pen: un qualcosa che fa riferimento al suo mandato da europarlamentare, ovvero fra il 2004 e il 2017. Casualmente, torna di moda. Proprio ora. Non sarà che questa univocità plebiscitaria dei sondaggi francesi, i quali vedono tutti Emmanuel Macron in vantaggio di circa 10 punti sulla rivale, siano un pochino gonfiati, magari al fine di evitare un afflusso di massa alle urne da parte di indecisi poco controllabili e in modalità mina vagante? E non sarà che l’aver rinviato a dopo il voto di domenica la decisione sul sesto pacchetto di sanzioni contro la Russia, quello che dovrebbe contemplare anche l’export di petrolio, sia ascrivibile proprio alla volontà di evitare un favore a Marine Le Pen, poiché una sua immediata emanazione avrebbe magari accompagnato i francesi ai seggi con nuovi record dei prezzi di gas e benzina sulle prime pagine dei giornali? 



Ok che gli ucraini stanno prendendo bombe in testa da 56 giorni e forse queste poche ore che ci dividono dall’esito della corsa all’Eliseo non faranno la differenza, ma, sicuramente, fanno riflettere. Come la sparizione dai radar del terzo incomodo della politica francese, quel Jean-Luc Mélenchon, il quale dopo essere arrivato a un soffio dalla stessa Le Pen e aver letteralmente umiliato il Partito socialista nella disputa interna alla gauche francese, ha immediatamente arringato la folla dei suoi sostenitori con un unico concetto: Non uno solo dei nostri voti deve andare a Marine Le Pen. Poi, sparizione dalla scena. Quasi temesse di rimanere invischiato nella tela di un ragno, se avesse – come appariva naturale – chiesto un confronto ai due candidati su due, tre punti qualificanti, in modo da vendere a caro prezzo la sua indicazione di voto e ottenere qualcosa di concreto per il suo elettorato, magari a livello di riforma delle pensioni. Jean-Luc Mélenchon invece ha fiutato l’aria. E si è letteralmente defilato. Sparito. Ovviamente, non prima di aver preso ufficialmente le distanze dal candidato impresentabile e dai suoi legami, più o meno reali e profondi, con Mosca. Come debitamente sottolineato da Emmanuel Macron per tutta la campagna elettorale e come fatto rimbalzare in Italia dagli esponenti del Pd, ovviamente a uso interno contro Lega e Fratelli d’Italia. Ora, l’assalto diretto alla presunte connection del Governo Conte con il Cremlino. Non a caso, ieri La Repubblica intitolava la sezione dedicata al caso Barr-Vecchione con l’intestazione Russiagate. 

Ovviamente, la questione non si chiuderà facilmente. Per il semplice fatto che, ancora oggi, a sei anni dalla vittoria di Donald Trump contro Hillary Clinton, le stesse autorità statunitensi – giudiziarie, politiche e di intelligence – non hanno mostrato una sola prova concreta della presunta interferenza diretta di Mosca nel voto statunitense, la proverbiale smoking gun. Anzi, a dire il vero, le uniche evidenze concrete – confermate proprio nell’ultimo periodo da organi di stampa insospettabili come il New York Times, il Washington Post e la CNN – paiono andare nella direzione opposta. Ovvero, tentativi sempre più palesi e illeciti di infiltrazione dell’entourage della Clinton in quello di Trump per creare false prove rispetto ai legami fra il tycoon e il Cremlino. Insomma, a sei anni di distanza, una ferita che ancora dilania la politica Usa. E che ha portato come frutto marcio l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021. 

Attenzione quindi a quanto sta dipanandosi sottotraccia in queste ore nella politica italiana. Perché a fronte di dati macro che richiederebbero un Governo in carica e non in campagna elettorale permanente, di una crisi energetica con cui si sta scherzando come si fa con il fuoco e a cui si offre come risposta la pagliacciata dei condizionatori sopra i 25 gradi, potrebbe fare comodo anche all’Italia una cortina fumogena di discredito permanente di M5S nella figura del suo leader ed ex Premier, quantomeno se l’intenzione fosse quella di spaccare del tutto il partito e lanciarsi in una campagna acquisti a prezzo di saldo. Se poi a questa operazione seguisse quella di un supplemento di indagine della politica rispetto ai ben più solidi e concreti legami tra la Lega e il partito di Vladimir Putin, noterete da soli come una nuova, eterogenea ma meno spuria maggioranza di governo stia di fatto già nascendo per il dopo-Draghi. 

Attenzione alla mossa di Jean-Luc Mélenchon e alla sua sparizione a tempo di record e degna di Chi l’ha visto?: dice molto, forse troppo sull’aria che tira. E che comincia a spirare dall’Atlantico anche sul nostro Paese. In modalità tempesta che attende solo di prendere forza e diventare uragano. 

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