Da mesi (forse anni?) non si fa altro che parlare di IA, ovvero l’Intelligenza artificiale che dall’essere un ‘semplice’ aiuto per una serie di compiti meccanici e ripetitivi e arrivata a preoccupare anche figure come Papa Francesco e i grandi leader mondiali; ma se c’è qualcuno che non si fa trarre in inganno dagli allarmismi quello è sicuramente Federico Faggin che proprio oggi ha parlato con la redazione della Stampa dei progressi della tecnologia, dei suoi – forse presunti – rischi e soprattutto di cosa ci rendere estremamente diversi dalle macchine che ci fanno tanta paura. Prima di entrare nel vivo del discorso di Faggin sull’IA vale la pena ricordare rapidamente chi sia: originario di Vicenza, oggi ha 83 anni e fino a pochi decenni fa era uno degli uomini più importanti nel panorama tecnologico, considerato – a ragione – il ‘padre’ dei microprocessori che oggi animano qualsiasi dispositivo elettronico.



Il punto di principio del suo lungo discorso però affonda le radici in un singolare evento che gli è capitato quasi 30 anni fa quando – ricorda Faggin nel suo ragionamento sull’IA – “mi sono alzato di notte e (..) ho sentito un’energia fortissima che veniva fuori dal petto” e che l’ha aiutato a superare quella “visione del mondo riduzionista” che da anni aveva abbracciato ed accettato; capendo – ed è questo il punto fondamentale – “che l’uomo e la macchina non possono essere ridotti a macchine e materia” perché dentro di noi abbiamo una cosa che le macchine non avranno mai: “La coscienza [che] non nasce dalla materia” e non può essere replicata.



Federico Faggin: “L’IA non avrà mai la nostra coscienza, ma dobbiamo smettere di considerarci macchine”

L’estrema sintesi della ‘rivelazione’ di Federico Faggin – collegata al punto sull’IA a cui arriveremo a brevissimo – è che là fuori (o meglio: qui dentro) “c’è una parte di mondo, cosciente, interiore, che non si può calcolare ma si può solo esperire”. Proprio in questo contesto va inserito il ragionamento sull’Intelligenza artificiale che secondo il padre dei microprocessori non è – e non può essere – in senso stretto intelligente perché è solamente “simbolica: non capisce – spiega Faggin parlando dell’IA – il significato di quello che elabora”; e a differenza dell’acceso dibattito pubblico sul “pericolo che [le macchine] spezzino via l’uomo” dal suo punto di vista è vano.



Perché? Semplice: “Il nostro corpo – spiega sempre alla Stampa -, la nostra mente è supervisionata dalla coscienza e la coscienza non emerge dalla materia” e seppur si dica certo che ad un certo punto l’IA (o qualsiasi altra avanzatissima tecnologia) “avrà più [capacità e intelligenza di calcolo] del nostro cervello” è altrettanto sicuro che “la coscienza va oltre i numeri“. La chiave di lettura dei rischi dovrebbe essere diversa dall’idea che ad un certo punto le macchine ci sottometteranno come nei peggiori film fantascientifici e secondo Faggin va interpretata nell’ottica dell’idea diffusa che “diventeremo macchine” perché a sostenerla finiremo per diventare “strumenti tra gli strumenti, dimenticando la nostra natura più profonda per scelta“.