I massicci interventi dei Governi di tutti i Paesi per cercare di limitare gli effetti sociali negativi delle misure adottate per sconfiggere la pandemia hanno rimesso in primo piano il ruolo dello Stato nell’economia. E nello stesso tempo hanno ridato fiato ai fautori di un nuovo statalismo con il semplicistico assioma per cui il “pubblico” è per sua natura indirizzato al bene comune, mentre il “privato” ha come obiettivo unicamente il profitto.



Siamo di fronte a una visione irrealistica e manichea che non può certo essere rivalutata da un’emergenza che ha già avuto e avrà ancora di più pesanti ripercussioni economiche e sociali. Proprio per essere contrastata questa emergenza avrebbe bisogno non solo di una piena efficienza di entrambi gli elementi, lo Stato e il mercato, con un’aggiunta ad ampie dosi di quel principio di sussidiarietà che adeguatamente valorizzato può essere un fattore decisivo per affrontare la crisi.



Troppo spesso si guarda a Stato e mercato come a due piatti della bilancia per cui se uno sale l’altro scende e viceversa. Non è così. Anche gli economisti più liberali sottolineano come uno dei compiti fondamentali dello Stato sia proprio quello di garantire al mercato adeguati meccanismi di funzionamento. Per esempio, la garanzia che i contratti vengano rispettati, che non si formino posizioni dominanti e di monopolio, che l’informazione sia corretta e che la pubblicità non sia ingannevole, che la moneta di scambio sia riconosciuta e mantenga il suo valore.

Peraltro, proprio in un momento come l’attuale in cui l’economia ha bisogno di una marcia in più per superare i pesanti ostacoli causati dalla crisi aiutare il mercato a funzionare vuol dire permettere alle forze creative, innovative, imprenditoriali, di sviluppare tutta la loro potenzialità.



Se ci fosse una vera cultura economica nella classe dirigente di questo Paese forse si potrebbero cercare delle risposte riscoprendo i valori di quella “economia sociale di mercato” che tanta parte ha avuto nella ricostruzione, in particolare della Germania, nel secondo dopoguerra.

Un libro che cerca di riportare un po’ di chiarezza, oltre che di corretta interpretazione di quella teoria è quello curato da Flavio Felice, Francesco Forte ed Enzo Di Nuoscio: “Moneta, sviluppo e democrazia” (Ed. Rubbettino, 2020, pag. 320, €20). Una raccolta di saggi particolarmente dedicati alle politiche monetarie, in cui si sottolinea, come si afferma nella premessa, il “singolare destino dei teorici dell’economia sociale di mercato, tanto decisivi per la rinascita dell’Europa nel secondo dopoguerra, quanto incredibilmente trascurati. Irriducibili anticolletivisti per i comunisti, troppo liberali per socialisti, troppo interventisti per i liberisti, troppo liberisti per i keynesiani e anche troppo filosofi per la mainstream economics”.

Questo filone di pensiero comprende teorici e intellettuali come Eucken e Boehm, ma anche politici come Erhard e Adenauer e ha avuto anche in Italia un influsso decisivo soprattutto in due personalità, a diverso modo incomprese, come Luigi Sturzo e Luigi Einaudi.

In sintesi sono tre i punti centrali dell’economia sociale di mercato: 1) il mercato è il più potente dispositivo di problem solving; 2) l’economia di mercato ha bisogno di una cornice giuridica ed etica per non degenerare; 3) è necessario garantire una solidarietà liberale attraverso una politica della concorrenza e il reddito minimo garantito.

Quindi una forte etica della responsabilità, una grande fiducia nella libertà di iniziativa, una difesa della sussidiarietà – affermano Felice e Di Nuoscio – “rispettando l’autonomia degli individui e degli altri corpi intermedi pubblici e privati”. Valori che sono anche alla base del ritrovato impegno dei Paesi dell’Unione europea con in prima fila, non a caso, proprio la Germania.

Leggi anche

VACCINI COVID/ Dalla Corte alle Corti: la neutralità che manca e le partite aperteINCHIESTA COVID/ E piano pandemico: come evitare l’errore di Speranza & co.INCHIESTA COVID BERGAMO/ Quella strana "giustizia" che ha bisogno degli untori