Alle discussioni sulle conseguenze economiche della pandemia partecipa, apparentemente invisibile ai nostri governanti, un’ingombrante ombra di Banco: il debito della Amministrazione Pubblica verso le imprese. Eppure, non si tratta di cifre di poco conto, visto che il debito della AP, centrale e locale, è tuttora stimato attorno ai 50 miliardi di euro, vale a dire il doppio del “pronto intervento” del Governo.
Il problema è stato riproposto, circa un mese fa, da Costantino De Blasi su Econopoly, il blog del Sole 24 Ore e sarebbe il caso che venisse ripreso seriamente da uno dei tanti comitati di esperti che circondano il nostro Governo. È un vecchio problema che ci è già costato un paio di condanne da parte della Corte di Giustizia dell’Ue, ma che proprio ora sarebbe giusto e possibile risolvere. Si tratta, infatti, di debiti riconosciuti dallo Stato e inclusi nel conto economico, ma il cui pagamento comporta un’uscita di cassa che, nel nostro caso, andrebbe ad aumentare il deficit e, a parità di condizioni, il debito.
La pandemia ha attenuato l’atteggiamento fiscale dell’Ue nei confronti dei debiti pubblici e risulterebbe difficile per Bruxelles opporsi a una simile operazione, che sarebbe, oltretutto, in linea con quanto richiesto dalla Corte di Giustizia. Stupisce pertanto il silenzio del Governo, che pure cerca così affannosamente di iniettare liquidità nel nostro sistema economico, in particolare a favore delle imprese.
Una prima iniziativa sarebbe dare rapidamente luogo alla compensazione tra questi crediti delle aziende e le imposte da esse dovute, prescindendo dalla tipologia dell’imposta e dei modelli di pagamento, come sottolinea De Blasi. Una misura ben più sostanziale che il semplice rinvio dell’imposizione di cui si sta parlando in sede governativa.
Se poi si mettesse subito in pagamento il 60% dei debiti, si otterrebbero quei 37 miliardi per cui si sta tanto discutendo, miliardi da non restituire al Mes, ma ai loro legittimi proprietari: le aziende italiane. Il debito rimanente servirebbe, come detto, alla compensazione con imposte e contributi e dovrebbe essere comunque restituito rateizzato entro il 2020.
Come si è visto, si tratta di cifre ben superiori a quella patrimoniale, o contributo, proposto da Delrio e su cui invece si è tanto discusso. A proposito di patrimoniale, pare che nessuno si ricordi che ne esiste già una e proprio su quei conti correnti bancari presi come base di molti degli interventi per affrontare la crisi. È l’imposta di bollo introdotta dal governo Monti nel 2012, che colpisce tutti i conti correnti bancari e postali la cui giacenza media superi 5.000 euro. Probabilmente molti non si sono accorti del prelievo, in fondo solo 34,20 euro all’anno per le persone fisiche (100 euro per gli altri), o lo hanno considerato parte del costo di gestione e quindi l’ennesimo balzello della banche. Invece è una vera e propria patrimoniale secca, prelevata a tutti quelli che non si fidano a tenere i soldi sotto il materasso. La cifra in sé è piccola, ma dato che ormai si è costretti tutti ad avere un conto corrente per una serie di pagamenti, a partire dagli F24, l’introito per lo Stato non deve essere irrisorio.
Ciò che colpisce è l’esiguità del livello della giacenza media, che rende l’imposizione generalizzata e che non può essere di certo collegata all’intenzione di promuovere investimenti più attivi. Colpisce anche il silenzio di questa maggioranza così pronta a combattere l’uso del contante, perché non è pensabile che si possa far un grande uso di carte di debito, o di credito, con meno di 5.000 euro di giacenza media. Evidentemente, l’importante è che entrino soldi in cassa, non importa come.