Sono in corso gli Stati generali dell’Economia, dove si incontreranno menti brillanti e rappresentanti di interesse; lì a rappresentare i tutti che della crescita dell’economia vivono e che dalla pandemia rischiano di dover penare la penuria. La crescita economica, appunto, quella già sbilenca da tredici anni; quella che allora non fu vista arrivare da chi avrebbe dovuto scrutarla; che nel 2013 solo Confcommercio lesse (“I redditi delle famiglie italiane, 1032 miliardi di euro, sono gli stessi del 1987” ) e quella dove, ancor oggi, i conti continuano a non tornare!



Chi, appunto, cerca oggi una visione per l’economia post-pandemia, che non sia vanesia, deve rifarli questi conti, perché quei redditi, che spesi fanno la crescita, saranno ancora meno. Molti meno. Dunque se a dati e fatti tutti hanno fatto orecchie da mercante, i mercanti di denaro no; fino a oggi hanno cucito e messo le pezze che si potevano mettere: il credito al consumo ha infatti segnato una crescita del 7,4%, sfiorando i 22 miliardi di euro, con una prevalenza di prestiti di importo inferiore ai 5.000 euro che costituiscono il 46% del totale.



Si continua a sperare, insomma, di poter generare ricchezza con il debito. Nel mondo di debito ne gira per 240.000 miliardi di dollari, con un Pil di 77.000 miliardi, figuriamoci quel che sarà dopo la pandemia.

Nell’accademia economica vi è chi di questa ricchezza grama ha fatto teoria: “stagnazione secolare“. Altri, per mettere un’altra pezza, gridano quel solito refrain de “la spesa pubblica per generare lavoro e riattivare il ciclo”. Pezza la cui efficacia sembra non trovare alcuna evidenza empirica; i denari per poterla fare, ancora meno.

Tutti insieme, insomma, brandendo quello scalcinato paradigma che attribuisce all’impresa la generazione della ricchezza ,staranno al capezzale a rimirarsi; la politica a rimirarli. Paradigma peraltro già smentito dalla formula utilizzata per calcolare il Pil: la ricchezza viene generata con la spesa aggregata, non con la produzione, né con il lavoro; quella dei consumatori ne fa i due terzi, gli altri aggregati solo il misero resto!



Vi è, insomma, più valore nell’esercizio del consumare che in quello del produrre. Un imponente succedersi di quotidiane azioni lo scolpisce: la spesa attribuisce valore alle merci che, acquistate, si trasformano in ricchezza; consumate se ne dispone la ri-produzione. Si genera così occupazione e lavoro. Viene tenuto attivo il ciclo, si dà sostanza alla crescita economica. Con l’Iva pagata si finanzia parte della spesa pubblica; con i risparmi viene finanziata la spesa per gli investimenti delle imprese.

Bene, nel tempo dell’Economia della produzione, i consumatori, nel far tutto questo trovavano compenso nel ristoro dato ai bisogni. A spesa fatta, pure il capitale incassava compenso per il rischio corso; il lavoro per la fatica impiegata. Buona la produttività dei fattori impiegati, buona la crescita.

Quando arriva il tempo dell’invece che cibarsi si ingrassa, si veste alla moda che passa di moda e per andare da qui a lì si acquista un Suv, i consumatori mostrano di essersi affrancati dal bisogno; viene così ridotta la necessità di dover fare quella spesa. Le imprese rischiano di avere capacità produttiva sovrabbondante; chi lavora avrà meno da lavorare. Et voilà, si sta nell’Economia dei consumi, là dove si è ridotta l’utilità marginale del dover fare la spesa facendo crescere l’utilità della domanda d’acquisto, per tenere la produttività del sistema, come pure la crescita.

Dunque, un sistema economico/produttivo che da lineare aperto si fa circolare e continuo; dove hanno più bisogno le imprese di vendere che i consumatori di acquistare, l’indifferibilità della spesa diviene un “bisogno” da soddisfare per poter far girare il ciclo e generare ricchezza!

Signori “rappresentanti”, se l’indifferibile “fattore consumo”, per la continuità del ciclo, attribuisce valore a una domanda scarsa occorre poterne stimarne il prezzo; chi poi dovrà intascarlo, come e chi dovrà pagarlo. Se prima nell’Economia della produzione si lavorava per guadagnare, nell’Economia dei consumi pure pandemizzata, deve  trovare ristoro economico l’esercizio di consumazione per avere a sufficienza da spendere; un reddito di scopo, insomma, che integri l’insufficienza di quello incassato con il produrre!

Beh, se tanto può dar tanto, la politica può/deve attrezzare l’ambiente normativo per un’economia resistente alle congiunture che la scrollano e poter dare finalmente a Cesare quel che è di Cesare. Tutta quella crescita fatta con la spesa non di bisogno, non dev’esser fatta a debito. Deve invece generare credito!

Si rende spendibile la proposta di Leggedell’economia resistente” per poter disporre di un mercato efficiente che sappia fare al meglio il prezzo; che disponga di allocare le risorse economiche generate dalla crescita per tenere adeguato quel potere d’acquisto che consente l’esercizio di ruolo dei diversi operatori della spesa aggregata. L’adozione della Legge renderà, de facto, appetita la costituzione di quell’Azienda “Libero Mercato Spa che capitalizzi onori e oneri e, in punta di diritto societario, “offra a tutte le persone la possibilità di contribuire all’attività economica e di condividerne i benefici” per far sì che, quanto auspicato dal Fmi, possa venire fatto.

La politica, per caldeggiarne l’istituzione, deve farsi carico di attrezzare “norme di vantaggio” che ne rendano conveniente l’adozione. Affinché il mercato, quando non impallato dai meccanismi reflativi, sia in grado di poter fare il miglior prezzo tra le parti in causa remunerando la produttività di ciascun agente per migliorare la produttività del tutto (1) eliminando nel contempo la commissione di quel “reato economico” che avvelena le relazioni umane.

Ci sono imprese che già lo fanno; hanno già attrezzato business pro crescita che consentono di far profitto se e quando, con l’acquisto delle loro merci, i consumatori rifocillano il potere d’acquisto. Funziona, rende! Per far sì che l’appetito, per le altre aziende, venga mangiando, s’ha da tornare pure a metter mano agli attrezzi del mestiere della politica; la leva fiscale per re-distribuire vantaggio agli aderenti la Spa, svantaggio ai renitenti.

Chi vorrà rappresentare queste istanze potrà intascare un cospicuo dividendo elettorale pagato da tutti i cesari del mondo e che farebbe tornare a crescere l’utilità marginale di una politica, altrimenti marginale.

Daje Signori, il tempo stringe. Queste “nuove opzioni” che fino a ieri dovevano riparare il danno generato all’economia da una stagnazione congenita, oggi possono farsi antidoto economico/produttivo affinché la pandemia Covid-19 non degeneri in quella della penuria. A proposito, nel tempo poi della Green Economy si può addirittura strafare: estrarre reddito per rifocillare il potere d’acquisto dal valore dalla risorsa rifiuto/riciclo che, nell’economia circolare, sta nella proprietà dei Consumatori.

Beh, allora, evviva l’economia circolare. Dunque ok, se con Circular Economy si intende quel termine generico che  definisce un sistema  pensato per potersi rigenerare in autonomia. Bene appunto poiché quell’impronta ecologica sempre più profonda, che lascia segni indelebili, sconquassa la Terra.

Nel 1976 in un rapporto presentato alla Commissione europea, dal titolo “The Potential for Substituting Manpower for Energy”, Walter Stahel e Genevieve Reday delinearono la visione di un’economia circolare e il suo impatto sulla creazione di posti di lavoro, risparmio di risorse e riduzione dei rifiuti. Ci misero del tempo, quelli dell’Ue, poi si convinsero. Fecero un piano strategico per il 2014/2020. Veniva previsto il passaggio dall’economia lineare, basata sulla produzione di scarti, a quella circolare incentrata sul riuso e il riciclo. Dunque, circolare, come l’Economia dei consumi.

Quelli dell’Harvard Business Review daranno le indicazioni: “Non si tratta di fare di più con meno, quanto fare di più con ciò di cui si dispone”. Bene, allora, pronti? Via! Le imprese devono riorganizzare la produzione per questo cambio di paradigma, i consumatori devono invece reclamare. Sì, reclamare. “Se il rifiuto diventa una risorsa, noi ne siamo i titolari”: con il possesso dello scontrino del prezzo pagato; nel prelievo Iva sulla merce acquistata poi nell’averla consumata e con la Tari pagata!

Dopo il possesso, tocca alla strategia: lo scarto è la materia prima, l’impresa la trasforma in materiale, il mercato ne fa merce; venduta si guadagna. Consumer2Business! Poi la tattica: con la gestione attiva della domanda selezioniamo gli acquisti compatibili, con il processo di consumazione ottimizziamo lo scarto, al mercato lo vendiamo; con il guadagno aumentiamo il potere d’acquisto, teniamo attivo un ciclo economico pure virtuoso. Ottimo! Migliora la produttività del sistema, migliora pure il valore economico generato; una mano lava l’altra, tutte e due puliscono la terra!

Con la Ditta “Circular-E” viene accorciata la catena produttiva riducendo la dispersione del valore; perdono una posizione le imprese, ne acquistano una i consumatori. Dopo tanta gloria, una domanda: e se, con la totale automazione dei processi di trasformazione, l’intera filiera produttiva diventasse per intero “cosa nostra”? Sì, Consumer2Consumer!

Bene, se non è vanagloria, in questa direzione sembra compiersi l’impresa: oltre la pandemia/tua/sua, con il Capitalismo dei consumatori e senza dover cambiare gli assetti proprietari.

(1) L’Intelligenza Artificiale consente di attrezzare dispositivi software/algoritmo che rendono possibile poter misurare, in tempo reale, il contributo produttivo fornito dai diversi fattori alla generazione della ricchezza: produzione, fatturato, magazzino e profitto; la produttività del capitale impiegato, quella del lavoro il merito del remunero, infine l’eventuale resto. Sì, quel resto che, in presenza di bip di sistema, segnalando un gap nell’out-put, deve poter remunerare il merito produttivo di quel fattore finora non remunerato; quell’esercizio di consumazione che, attivato, tiene attivo il ciclo. Dunque, tocca render dinamico quell’altrimenti anchilosato, meccanismo di allocazione/riallocazione della ricchezza ai fattori, per misurarne l’azione produttiva e il prezzo di mercato.