Gli economisti non godono di buona fama. Viene spesso simbolicamente ricordata la domanda della regina Elisabetta, ai maggiori rappresentanti della London School of Economics pochi anni dopo la grande crisi del 2009: “Perché nessuno di voi l’aveva prevista?”.
Certo, perché all’economista si richiede di saper interpretare il presente per prevedere il futuro, magari senza dimenticare le lezioni del passato. Un compito non tanto difficile, ma semplicemente impossibile: per la semplice ragione che l’economia non è una scienza, non risponde alle logiche razionali e non segue i pur sofisticati modelli matematici. L’economia è una disciplina che tenta di interpretare le relazioni tra le persone e le cose, che cerca di dare un senso al denaro e alla ricchezza, che cerca di valutare azioni e reazioni ben sapendo che gran parte delle conseguenze appartengono al campo della non intenzionalità.
L’economia tuttavia deve essere un supporto importante, fondamentale, per la politica, non solo la politica economica in senso stretto, ma per il vasto spettro delle scelte che governi e parlamenti devono affrontare: dalla sanità all’istruzione tutte le scelte di metodo non possono che poggiare sui pilastri delle compatibilità economiche, del rapporto costi-benefici, della sostenibilità a medio-lungo termine. Non certo perché ad ogni scelta debba corrispondere un profitto, quanto per massimizzare gli effetti sociali positivi e ridurre al minimo quelli negativi.
Proprio la sanità e l’istruzione sono centrali in questa prospettiva. Perché per esempio in queste settimane una spesa coraggiosa per tracciare, isolare, controllare i contagi potrebbe fermare quella tanto temuta seconda ondata della pandemia che avrebbe conseguenze enormemente negative su tutti i fronti. Ecco perché gli economisti che non hanno condizionamenti ideologici giudicano incomprensibile l’eventuale rinuncia ai prestiti europei, con il tanto contestato Mes, destinati a coprire i costi della lotta alla pandemia.
Ma ci sono economisti utili ed economisti al servizio della politica di parte, economisti che indagano la realtà ed altri che si impegnano ad applicare schemi astratti a problemi concreti.
L’Italia non viene considerata un Paese di grandi economisti. L’unico premio Nobel lo ha vinto Franco Modigliani, italiano di nascita, ma che ha compiuto tutta la sua carriera negli Stati Uniti dove è emigrato da giovane per le leggi razziali.
E anche la cultura economica non è particolarmente diffusa, anche perché si può arrivare tranquillamente ad una laurea in campo umanistico e scientifico, senza aver mai approfondito i fondamentali dell’economia.
Anche per questo appare importante non dimenticare la lezione dei pochi testimoni di un’economia a misura d’uomo, legata ai territori e alla comunità, capace di liberare le energie positive e di valorizzare la dimensione sociale.
Tra questi un posto importante, nella pur limitata storia economica italiana, lo merita sicuramente Giorgio Fuà, a cui Roberto Giulianelli ha dedicato un documentato e accattivante volume: “L’economista utile, vita di Giorgio Fuà”, (ed. Il Mulino, pagine 352, 25 euro).
Mezzo secolo di storia italiana, dal dramma della Seconda guerra mondiale e della Shoa alla ricostruzione, e le esperienze con grandi personalità come Enrico Mattei e Adriano Olivetti, lo studio attento e partecipato di quella dimensione territoriale che è stata alla base del miracolo economico. Fuà ha svolto gran parte della sua attività accademica e di ricerca ad Ancona, al centro di quella “via adriatica” che è stata un modello di sviluppo per la volontà di imprenditori che “consideravano la propria missione quella di formare, guidare, sviluppare un gruppo di persone facendole sentire partecipi di un’operazione creativa comune della quale essere tutte orgogliose”.
Il senso di questo impegno è stato in fondo quello di considerare l’economia come un elemento di cultura, un elemento fondato quindi sulla capacità creativa delle persone unita a un grande senso di responsabilità sociale.
Una lezione, quella di Fuà, ancora più valida oggi. Per contrastare uno spirito neo-statalista e assistenziale che rischia di offuscare i veri fattori di crescita.