Da tempo a partire dal mondo anglosassone la prospettiva delle virtù ovvero dei tratti positivi del carattere, prospettiva che ha soprattutto un’origine classica in autori come Aristotele e Tommaso, ha assunto una posizione sempre più centrale nel dibattito etico ed epistemologico. Si pensa, cioè, nuovamente che l’educazione del carattere abbia una significativa incidenza pubblica e non ci si possa limitare soltanto a cercare di attuare «sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono» (T.S. Eliot).
Alle virtù etiche tradizionali come la giustizia e la saggezza pratica, che possono avere una dimensione civica o pubblica, si sono aggiunte più recentemente le virtù epistemiche, che sono quelle qualità come l’apertura mentale o il coraggio intellettuale che favoriscono la conoscenza e la ricerca e che hanno una rilevanza privata e pubblica.
Ma forse è ancora più facile individuare i vizi corrispondenti a queste virtù, vizi che permettono, per opposizione, di meglio chiarire il ruolo dei tratti positivi del carattere. Proprio sul tema Vizi pubblici: le dimensioni individuali e collettive dei vizi civici ed epistemici si è svolto il 1° e 2 ottobre scorsi presso l’Università di Genova il quinto convegno internazionale promosso da Aretai Center on Virtues, centro interuniversitario che tra i primi nell’Europa continentale da tempo coltiva questa linea di ricerca.
Tra i temi discussi nelle relazioni, tenute da importanti studiosi di livello internazionale, sono proprio quei vizi che attentano alla salute della vita pubblica come l’arroganza, la presunzione di conoscere più e meglio degli esperti tematiche attinenti un determinato ambito, la corruzione endemica che interessa certe istituzioni. Si tratta di tematiche di estrema attualità, che hanno una ricaduta quasi immediata su questioni urgenti quali, ad esempio, la diffidenza nel riguardo dell’uso dei vaccini, la scarsa fiducia negli esperti, la diffusione di fake news facilitata dai nuovi mezzi di comunicazione e da una certa pigrizia intellettuale, l’ostinata negazione di fatti come il cambiamento climatico e il rapporto con il passato. Alcune relazioni riguardavano proprio il tema della legittimità della distruzione delle statue di Colombo e del generale Lee negli Stati Uniti da parte di minoranze particolarmente emarginate.
Alcuni interrogativi generali di carattere teorico sono emersi dalle relazioni e dal dibattito. Per esempio: quale ruolo può svolgere l’attenzione, valorizzata nel Novecento da grandi donne filosofe come Hannah Arendt, Simone Weil e Iris Murdoch, al fine di evitare di cadere in certi vizi privati e pubblici come l’insensibilità morale da un lato o l’eccessivo attaccamento ad una parte politica dall’altro? Il criterio della medietà tra gli opposti vizi, esaltato in etica da Aristotele, vale sempre anche in politica oppure talvolta bisogna evitare di cadere nella facile logica della mediazione o compromesso tra opposti eccessi? In che misura il perfettismo, ovvero la teorizzazione di assetti politici perfetti almeno da un certo punto di vista, è una virtù oppure un vizio in teoria politica? Qual è il ruolo delle teorie cospiratorie e come smascherarle? In che senso vizi privati come una difettosa o eccessiva alimentazione incidono sulla dimensione pubblica e sono come tali moralmente condannabili?
Problemi altrettanto importanti traspaiono, a mio parere, sullo sfondo del dibattito. Il primo riguarda la relazione tra tendenze egualitariste in democrazia e il riconoscimento dell’autorità o dell’autorevolezza. Non abbiamo in fondo tutti diritto a formarci una nostra opinione? Tali tendenze possono minare la sussistenza stessa della società e vanno contrastate attraverso una valorizzazione intelligente della dimensione dell’autorevolezza nei vari ambiti ed una opportuna educazione alla virtù della criticità.
Il secondo tema, forse quello più importante, che il convegno ha aiutato a mettere a fuoco è il seguente: anche qualora conoscessimo a fondo l’articolazione delle virtù e dei vizi, non per questo saremmo motivati a praticare le une o a evitare gli altri. Soltanto una passione per uno scopo della vita personale e sociale (il bene comune?), comunque lo si intenda, può far scattare il dinamismo delle virtù e dell’attenzione alle circostanze concrete senza di cui le virtù non si sviluppano. Altrimenti si potrebbe dire, parafrasando Dante, «le virtù son, ma chi pon mano ad esse?».
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