Chissà se tra qualche anno la decisione di venerdì degli ambasciatori Ue – che di fatto hanno rinviato ad imprecisati tempi migliori la decisione di mettere al bando dal 2035 le auto a diesel e benzina – si dimostrerà il primo atto di una valanga capace di precipitare sull’intero castello politico dell’Unione Europea.



Sarà una sensazione, ma è evidente che la maggioranza rosa-rosso-verde che di fatto domina ora la Commissione europea stia dando preoccupanti segni di scricchiolii.

La scelta del “green” era ed è una battaglia politica prima ancora che economica e nell’immaginario collettivo della sinistra europea il fatidico arrivo ad “emissioni zero” è ora un miraggio che si allontana sotto la realpolitik di governi sempre più scettici sull’opportunità di diventare icone del mondo ecologista mettendosi contro la gran parte dei propri cittadini.



Il voto del 2024 si avvicina e il rischio che una diversa maggioranza sieda nella Commissione di Bruxelles è reale. E quindi meglio la prudenza.

Per questo l’attivismo italiano e polacco, cui è seguito quello ungherese, bulgaro e della Repubblica Ceca – ma anche con la scelta prudente della corazzata tedesca di annunciare un’astensione (che nella pratica significa voto contrario) – hanno prodotto l’inevitabile stop.

In Italia grande soddisfazione è espressa dalla Meloni, da Salvini e dai ministri Urso e Pichetto Fratin, che parlano di successo politico, mentre a sinistra è sceso un silenzio tombale.



Invano si è atteso un commento da Elly Schlein, alle prese con la prima vera grana nel dover prendere una posizione chiara tra la teoria e la realtà.

Palpabile l’imbarazzo generale. Ne è prova Repubblica, che ieri della scelta europea non dava nessuna notizia in cronaca, limitandosi solo a un richiamo a pagina 32, nelle rubriche economiche.

Certo, a sinistra, pesano le parole di Romano Prodi che nelle scorse settimane aveva espresso duramente e con forza una sua posizione nettamente contraria al procedere su questa linea europea, sottolineando i rischi di un’auto elettrica con troppi componenti “Made in China”, il dramma occupazionale che ne verrebbe, l’assurdità di posizioni francamente poco difendibili. Per esempio, che una capitalistica Ferrari avrebbe potuto continuare ad andare a benzina ed un’utilitaria invece no, oppure che sarebbe parso davvero bizzarro permettere ancora la produzione di auto endotermiche destinate però solo all’esportazione extra Ue, quasi ci fosse un mondo diverso appena fuori l’Europa.

La decisione di rinvio sulle auto elettriche è però anche un segnale politico, ovvero che le opinioni pubbliche ed i governi nati dopo il 2019 sembrano di caratura e indirizzo progressivamente diverso rispetto al voto che aveva portato all’elezione del parlamento europeo.

Il rischio era che il provvedimento, uno dei più simbolici e importanti della legislatura, ricevesse un’imbarazzante bocciatura. Proprio per evitare questo scenario (anche perché a Stoccolma da qualche mese c’è un governo di centro-destra), la presidenza svedese dell’Ue ha optato per un nuovo rinvio, di fatto consegnando il cerino acceso ai suoi prossimi successori spagnoli.

Ci si chiede sempre più seriamente, comunque, se la strada da seguire oltre all’elettrico non sia quella di nuovi combustibili più puliti (e in parte sintetici) piuttosto che imporre divieti che rischiano di essere una foglia di fico, visto che ad oggi le ricerche sull’uso dell’idrogeno sono ancora lontane da soluzioni convincenti.

Sul piano interno il governo Meloni può cantare vittoria, sottolineando che l’Europa va ora contenuta non soltanto sul tema dei motori, ma – oltre che su alcuni temi “etici” – anche sul piano delle abitazioni ecologiche, sul packaging piuttosto che sull’eco-tessile, dossier nei quali “l’Italia chiede ragionevolezza, tornando in campo come grande Paese, fondatore dell’Unione Europea, che sa bene quali siano davvero il sentimento e la necessità di questo Continente” ha dichiarato il ministro Urso, aggiungendo: “Noi siamo un governo pragmatico che guarda innanzitutto agli interessi nazionali e alla sostenibilità del sistema sociale che è conseguenza della sostenibilità del sistema produttivo. E vorremmo che altrettanta consapevolezza e ragionevolezza ci siano nelle istituzioni europee”.

Spingendo troppo su elettrico e batterie – si sottolinea a Roma – “rischiamo di passare dalla subordinazione al gas russo, che stiamo pagando ora a caro prezzo, a quella per le materie prime che sono appannaggio della Cina e alla tecnologia green che oggi in gran parte si realizza in Asia”. “Allora passeremmo dalla padella alla brace. Non ce lo possiamo permettere, non possiamo lasciare ai nostri figli questa eredità”.

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