L’idrogeno è una delle carte da giocare nella transizione energetica. Lo sa bene l’Unione europea che ne ha fatto quasi il protagonista del Green Deal e ha varato la scorsa estate una strategia comunitaria sull’idrogeno con un piano da 470 miliardi di euro per finanziare progetti di ricerca nei paesi dell’Unione con l’intento di ottenere il 2% circa della penetrazione dell’idrogeno nella domanda energetica europea nei prossimi 9 anni, spingendo per un incremento del suo peso nel mix energetico fino al 13-14% entro il 2050 fino ad arrivare al 20%. L’Italia si allinea e per sostenere la transizione energetica all’idrogeno stanzia nel Pnrr 3,19 miliardi di euro per promuovere la produzione e l’utilizzo di H2 sia nel trasporto pesante che nei processi industriali energivori hard-to-abate, come la siderurgia e il petrolchimico in mancanza di soluzioni alternative scalabili di elettrificazione competitive.



Attualmente le tecnologie più avanzate sono di carattere elettrochimico e sono costituite da elettrolizzatori alimentati da diverse possibili fonti (da cui derivano le denominazioni dei colori dell’idrogeno spiegate in seguito) per scindere l’acqua in idrogeno e ossigeno. Facile no, trattandosi della risorsa più abbondante sul nostro “pianeta blu”! Senonché non è esattamente così. Alcune precisazioni.



Primo, va ricordato che l’idrogeno non è un combustibile, ma un «vettore», cioè un contenitore di energia secondaria. Secondo, l’idrogeno non è disponibile in natura sotto forma gassosa, l’unica utilizzabile come fonte di energia, e per “staccare” le molecole H2 da quella di ossigeno dell’acqua servono procedimenti che a loro volta consumano energia. Per le leggi generali della termodinamica l’energia contenuta nell’idrogeno sarà sempre minore dell’energia consumata per produrlo. Il nodo delle polemiche si concentra proprio sulle fonti impiegate per produrlo che determinano diversi tipi di idrogeno più o meno desiderabile. Se viene prodotto da energie rinnovabili, come ad esempio il fotovoltaico, è idrogeno verde; se prodotto seguendo il procedimento steam reforming dal petrolio, gas o carbone parliamo di idrogeno grigio; se si ricorre all’energia nucleare è idrogeno viola; e se è il gas naturale l’elemento di partenza da cui estrarre l’idrogeno intrappolando la CO2 di scarto emessa durante la sua produzione nel sottosuolo viene indicato come idrogeno blu.



Una tavolozza di colori che non solo indica una gradazione di sostenibilità ambientale, ma riflette anche una gamma nei costi: in Italia si viaggia all’interno di una forchetta da 1-1,5€/kg per quello grigio a 2-4€/kg per quello verde secondo delle stime del rapporto IEA. Proprio sull’idrogeno blu che si colloca a metà strada della scala dei costi si scontrano due opposte visioni. Da un lato, le grandi aziende energetiche, in Italia corrisponde alla posizione di Eni e Snam, promettono progetti su larga scala di stoccaggio della CO2 per lo sviluppo di filiere basso emissive di idrogeno e premono affinché quello blu rientri a pieno titolo tra le energie sostenibili. Dall’altro, gli ambientalisti bollano la procedura come greenwashing: in sostanza l’idrogeno blu “puzza” di fossile ed è solo un’astuzia dei gruppi petroliferi per ritardare l’uscita dal gas. A suffragare la tesi che l’idrogeno blu non sia proprio a zero emissioni, neppure a basso carbonio anzi, è arrivato un recente studio scientifico delle università Cornell e Standford. Sulla base di un LCA, l’analisi dell’intero processo a partire dalla prospezione ed estrazione del metano, si calcola che le emissioni fuggitive, largamente sottostimate, siano superiori alle emissioni risparmiate con il sistema di cattura e stoccaggio nel sottosuolo della CO2.

Siccome l’idrogeno blu non è un “bene in sé”, ma solo un vettore energetico funzionale alla decarbonizzazione, è chiaro che la tecnologica usata diventa una scelta politica. L’Unione europea è consapevole che le industrie del Vecchio Continente avranno bisogno di almeno 100 milioni di tonnellate di idrogeno, ma vista la scarsità di offerta e il divario di costo con quello verde, propendono per impiegare anche quello blu almeno nei prossimi 20 anni.

Un po’ di sano realismo nella decarbonizzazione è più che auspicabile, profilassi indispensabile per evitare sconcertanti contraddizioni come quella accaduta appena una settimana fa negli Stati Uniti. A pochi giorni dalla pubblicazione del Rapporto Ipcc che lancia l’allarme rosso sul riscaldamento globale sollecitando i governi ad agire immediatamente, il presidente Biden chiede ai leader dell’Opec+ di produrre più petrolio per allentare le tensioni sul prezzo diventato a un tratto una questione di sicurezza nazionale. E questo avviene proprio all’indomani del voto in Senato sul disegno di legge da mille miliardi di dollari, un pacchetto di azioni per stimolare la costruzione di veicoli elettrici made in Usa.

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