Il 2019 si sta avviando alla fine, lasciando una serie di crisi e di guerre che coinvolgono di fatto tutti i continenti e si estendono perfino all’Artide e all’Antartide. Una sia pur affrettata analisi non può che partire dagli Stati Uniti, tuttora lo Stato più potente sulla scena mondiale.

Gli Stati Uniti sono di fronte non solo a un più complicato scenario geopolitico, ma, soprattutto, a una grave crisi interna, con un Presidente sotto procedura di impeachment a un anno dalle elezioni presidenziali. Accuse gravissime che stanno creando una drammatica divisione all’interno del Paese, oltre che dei partiti. La faida interna di Washington sta coinvolgendo direttamente governi stranieri, come quello ucraino per la “questione Biden”, o quello italiano con i non chiari incontri tra servizi segreti nostri e americani, connessi a un presunto complotto ai danni di Donald Trump nel 2016.



La presenza militare statunitense sta diminuendo in varie aree un tempo considerate nevralgiche, come il Medio Oriente, con un’Amministrazione Trump più coinvolta delle precedenti nell’America del Sud, non a caso un tempo definito il “cortile di casa” degli USA. Stanno aumentando peraltro, su nemici e amici, pressioni di altro tipo: sanzioni e guerre tariffarie. Cina e Russia sono diventati di nuovo avversari degli States, ma in un quadro diverso dalla vecchia Guerra Fredda: non più due blocchi contrapposti, ma uno scenario multipolare che rischia di sfociare in un “tutti contro tutti”. 



Ne è un esempio il Medio Oriente, dove le potenze regionali, Arabia Saudita, Iran, Israele, Turchia, con l’aggiunta dell’Egitto, si confrontano con assi e alleanze a geometria variabile. Con guerre vere e proprie, come in Siria e nello Yemen, o con violenti conflitti interni, come in Iraq. In questi tre Paesi è in atto anche uno scontro tra sunniti e sciiti, questi ultimi appoggiati dall’Iran, un appoggio che in altre condizioni non sarebbe stato facilmente accettato. Per esempio, gli sciiti iracheni sono da sempre timorosi per la invasività del potente vicino, ma proprio l’attuale scontro tra sunnismo e sciismo, fomentato anche da Washington, sta facilitando il compito all’Iran.



Il mondo sunnita è estremamente diviso e gli interessi di Arabia Saudita e Turchia sono più contrastanti che coincidenti, dato che entrambi tendono alla guida dell’area. La Russia sta assumendo sempre più il ruolo di “arbitro” nella regione, ma anche Mosca si troverà presto di fronte a difficili decisioni. Per quanto abile, Putin non riuscirà a mantenere a lungo i “piedi in più scarpe” e dovrà decidere chi privilegiare nelle alleanze tra i vari potentati e fazioni. Nel frattempo, i conflitti continueranno coinvolgendo anche altri Paesi, come sta già succedendo per Libano e Giordania, tanto più tenendo conto della grave crisi istituzionale in cui versa Israele. Sembrano quindi piuttosto scarse le possibilità che la regione si avvii a un periodo di maggiore tranquillità, con un qualche sollievo alle martoriate popolazioni e un inizio di ricostruzione di quanto è stato così ampiamente distrutto.

L’Asia vede altri due pericolosissimi conflitti: quello tra India e Pakistan per il Kashmir e le manifestazioni a Hong Kong. Il conflitto sul Kashmir è in atto da decenni, ma l’attuale ripresa degli scontri vede l’India governata da un partito nazionalista, che rivendica il “giusto” ruolo di potenza a un Paese che ormai contende il primato di più popoloso alla Cina. Dall’altra parte, il Pakistan è tutt’altro che immune da tentazioni islamiste: anche qui, come in Medio Oriente, le diversità religiose si intrecciano con quelle etniche e di potere. Sia India che Pakistan posseggono armi nucleari, così come la Cina, che sta cercando di giocare un ruolo determinante nella vicenda, tanto più che governa direttamente una parte del Kashmir.

Altrettanto nevralgica è la questione di Hong Kong, problema di non facile soluzione, con ancora la popolazione a pagare il conto, e che pone dilemmi sia alla Cina che all’Occidente. Pechino ha buon gioco nel dichiarare interferenze in sue questioni interne i tentativi di appoggiare le manifestazioni nell’ex colonia inglese. Il fatto che la Cina sia governata in modo dittatoriale era noto anche quando, ventidue anni fa, fu ceduta a Pechino la sovranità dell’ex colonia britannica. Non ci si poteva certo aspettare che la Cina comunista rispettasse la sua autonomia per sempre, o che si potesse fermarla con la semplice indignazione. Il governo cinese potrebbe, oltretutto, far notare il comportamento non molto diverso della democratica Spagna nei confronti della Catalogna.

Tuttavia, anche Pechino non può agire come fa da sempre contro i dissidenti e i cristiani, o con la violenza che sta dimostrando nei confronti degli Uiguri musulmani, anche se ciò provoca maggiore mobilitazione internazionale. Un diretto intervento armato a Hong Kong avrebbe conseguenze molto gravi che il governo cinese non può affrontare a cuor leggero. Inoltre, Pechino non può rinunciare facilmente alla ricchezza per la Cina rappresentata dalla piazza finanziaria di Hong Kong. E’ quindi probabile, e tutto sommato sperabile data la situazione, che Hong Kong rientri nell’inevitabile scambio di concessioni necessario per mettere fine all’attuale guerra commerciale e politica tra Stati Uniti e Cina.

Rimarrebbe da parlare dell’Africa, ma qui basta dire, purtroppo, che quasi nessuno dei suoi Stati è immune da conflitti, interni soprattutto. Anche qui differenze etniche e religiose fanno da sfondo a conflitti di potere, nei quali le potenze esterne, quelle ex coloniali, come la Francia, o quelle “neocoloniali”, come Cina, Russia e potentati arabi, tendono solo ad affermare i rispettivi interessi.

Si può concludere che lo slogan di Trump, “America First”, non è solo suo: è stato di chi lo ha preceduto, lo è di Xi Jinping e la restaurazione dell’impero della “Terra di Mezzo”, di Putin e della sua Russia zarista, di Johnson e di “ Britannia rule the waves”, di Merkel e “ Deutschland über Alles”, di Macron e “France d’abord”. Il nazionalismo, da affermazione serena della propria identità nel rispetto e in confronto con le altre identità, si trasforma in volontà di dominio sugli altri. Diplomazia e guerra diventano strumenti di questa volontà e la pace solo un intervallo tra due guerre.