Bettino Craxi non ha lasciato un’autobiografia ma fogli sparsi scritti di suo pugno, spesso pieni di cancellature. Appunti finora sconosciuti, che lo storico Andrea Spiri, docente alla Luiss, già autore di altri volumi sul leader socialista, ha ricomposto, dando un senso al fiume in piena dell’ultimo Craxi. La pubblicazione–mosaico, in libreria dal 16 gennaio per Baldini+Castoldi (L’ultimo Craxi. Diari da Hammamet), scava nell’intimo dei pensieri di un leader, il quale dalla Tunisia guarda a se stesso e alla politica, ma soprattutto all’Italia che lo sta lasciando morire tra attestati di affetto, disinteresse e condanne in contumacia. Al Sussidiario, l’autore racconta in anteprima i contenuti finora inediti di quelle pagine, che vent’anni dopo la morte diventano un libro. Come il biglietto manoscritto che Craxi invia a Giovanni Paolo II il 29 novembre ’99, il giorno prima della delicata operazione al rene (foto in basso).



Professore, come le è venuta l’idea di dar forma ai Diari di Hammamet?

In vista del ventennale della scomparsa ho orientato il filone della ricerca su un aspetto più inedito del personaggio, lasciando da parte le considerazioni di natura squisitamente politica per occuparmi della parte più intimistica. Il Craxi di Hammamet è un uomo sconfitto, disilluso, che alterna momenti di rabbia, rassegnazione, frustrazione e sconforto. Il pensiero dell’Italia è fisso. Craxi si spegne coltivando la speranza di rivedere il suo Paese ma non lo rivedrà più. È un uomo che scava nei ricordi, che ripercorre le vicende che hanno lacerato il tessuto dei rapporti con avversari e compagni di un tempo con i quali ha condiviso una vita fatta di battaglie esaltanti e sconfitte dolorose, orientata a grandi ideali. Ci sono delle note bellissime in cui dice “mi lasciano morire in esilio, non c’è cosa peggiore che morire senza poter rivedere la tua città”, Milano, i tuoi amici, “il Paese in cui sono nato e mi sono dedicato alla cosa pubblica”.



Che uomo ha trovato, un politico o un martire?

Il Craxi di Hammamet è ancora un politico a tutto tondo perché è difficile per un uomo che ha fatto della politica la passione di una vita rassegnarsi all’idea che tutto stia per finire. Lui anzi combatte e utilizza carta e penna come strumenti di difesa, attraverso i quali tenere accesa l’attenzione dei media sulla sua vicenda umana, prima ancora che politica. Conscio che si sarebbe aperto un dibattito sull’eredità e sulla figura di un leader che fa ancora discutere, che resta in qualche modo controverso, ho preferito concentrarmi sulla sofferenza di un uomo che vive i suoi ultimi mesi di vita macerandosi nella solitudine.



Siamo in una dimensione temporale di fine secolo scorso che però contiene riflessioni più che mai attuali. Quale tra le tante, finora inedite, le è parsa più lungimirante?

Alcuni giudizi, muovendosi sul piano politico, sono di straordinaria attualità. Sembrano scritte non ieri, ma oggi, le considerazioni per esempio sull’Europa, che corre il rischio di rimanere appiccicata ai parametri e agli zero virgola, sacrificando il benessere dei suoi cittadini e le ragioni della giustizia sociale. Un’Europa che ragiona solo in termini burocratici e di numeri e non tiene in conto le esigenze reali degli europei. Oppure quelle attualissime sulla globalizzazione, che rischia di provocare una minoranza di individui ricchissimi e una grande moltitudine di persone che non ce la fanno e restano indietro. Riflessioni di grande preveggenza.

Esprime una certa preoccupazione per il futuro dell’Italia, ma senza troppa autocritica. Perché?

Si pone degli interrogativi: la politica è ancora capace di recuperare dignità, e i partiti di compiere scelte qualificanti in termini di benessere e progresso sociale per il benessere dell’Italia? Diciamo che, pur nella mutata condizione esistenziale, Craxi non perde la voglia di proporre una rotta o delle ricette. Scrive, perché con la scrittura magari si illude di poter riallacciare quel legame spezzato con tanta parte dell’opinione pubblica. Gli serve ad aggredire quei pregiudizi che si stanno sedimentando nell’immaginario collettivo. Chiamiamola un’operazione verità.

Nel libro c’è anche una “lista degli errori” che Craxi aveva solo iniziato a compilare. Lei in qualche misura l’ha interpretata. Velleità o necessità storica?

Se la seconda repubblica dovesse nascere sulla criminalizzazione della prima, scrive Craxi, nascerebbe su una grande menzogna. Ed è quello che poi è avvenuto ed è sotto gli occhi di tutti. Innanzitutto, si pente di aver dato fiducia e potere a uomini che non lo meritavano. Qui si entra nella dimensione esistenziale, dei tanti che gli hanno voltato le spalle. In qualche caso fa nomi e cognomi. Ci sono poi anche gli errori di natura politica. Dice che la situazione gli era in qualche modo sfuggita di mano. Non aveva capito quanto le radici del sistema fossero marce. Cerca fino all’ultimo di percorrere la strada della politica, si illude che al proprio interno potesse trovare la forza per rigenerarsi, quando invece quei partiti avevano perso la coesione col corpo sociale.

Tra i passaggi scritti di suo pugno che lei ha recuperato ce n’è uno particolarmente attuale: “Solo una cosa mi ripugnerebbe, essere riabilitato da coloro che mi uccideranno”. Sta succedendo?

Succede solo in parte, nel senso che la politica credo non abbia ancora fatto i conti fino in fondo con la vicenda Craxi. Il muro, la figura di Craxi, sta uscendo in qualche modo dal recinto della damnatio memoriae in cui l’avevano ricacciata. In questo senso, il dibattito in occasione del ventennale, lo stesso film Hammamet, stanno contribuendo a ridare a Craxi ciò che è giusto dare a Craxi. Ho l’impressione però che il Paese, l’opinione pubblica, siano più avanti rispetto alle riflessioni che stanno maturando per esempio in una parte maggioritaria della sinistra italiana, quella parte che ancora privilegia l’aspetto giudiziario, che non riesce a scindere le intuizioni e le grandi svolte maturate nella politica interna e internazionale dal trauma e dal tragico epilogo giudiziario.

Perché, secondo lei?

Perché la sinistra non riesce a fare i conti con la sua stessa vicenda storica, quindi non puoi pretendere che si facciano fino i fondo i conti con la storia altrui. Dal lato centrodestra vedo invece una corsa anche strumentale a mettere il cappello sul alcune intuizioni della politica craxiana.

Un ventaglio di posizioni, in qualche caso veri e propri riposizionamenti dei leader di ieri e di oggi. Matteo Salvini, Matteo Renzi, Walter Veltroni…

Le forze che si richiamano al centrodestra hanno indubbiamente fatto passi in avanti maggiori rispetto all’alveo da cui Craxi veniva, cioè quello della sinistra. Resta una figura controversa. Vent’anni non so se siano un lasso sufficiente per riflettere con serenità di giudizio, ma il suo pensiero è comunque utile a comprendere il presente che stiamo vivendo.

Cosa lascia Craxi in eredità alla politica di oggi?

Grandi intuizioni e capacità di lettura dei fenomeni globali e dei tempi moderni. Si dimostra innovatore anche nella comprensione dei fenomeni sociali che si stavano profilando all’orizzonte, nella comunicazione politica, nella personalizzazione e spettacolarizzazione, ma resta un uomo che fa della sua passione una professione di vita. Poi ancora, ma qui entriamo su un campo minato, le riflessioni sullo squilibrio tra i poteri democratici dello Stato e questo rimanda anche al conflitto tra politica e giustizia che 20, 25 anni di Seconda repubblica non hanno risolto.

Però il volume contiene anche giudizi finora custoditi negli archivi, come quando nel ’96 Craxi scrive: “Mi pento di aver dato fiducia e potere a uomini che non lo meritavano”. Perché sono serviti vent’anni per “scoprire” i pensieri dell’ex segretario Psi negli anni di Hammamet, quelli post Mani Pulite, fino al giorno della morte?

Perché evidentemente siamo un Paese che non ha voglia di coltivare la memoria storica, che non ha passione per la memoria storica. Gli archivi sono ormai aperti alla consultazione di studiosi e cittadini. Quindi tante volte andare a scavare nei ricordi può far bene al nostro stesso presente e al nostro vissuto quotidiano. Le carte esistono, gli archivi sono quasi tutti digitalizzati. Ci vuole solo un po’ di passione e amore per la ricerca.

A vent’anni dalla morte, possiamo davvero tenerci lontano dalla demonizzazione o dall’apologia del passato, come si augura nel libro?

Dobbiamo tenerci lontani. Intorno alla figura di Craxi è stata combattuta una sorta di guerra civile di due opposti schieramenti. Damnatio memoriae e le ragioni dell’apologia e della riabilitazione. Craxi non ha bisogno né di essere demonizzato né esaltato. È un pezzo importante di storia di questo Paese e sono convinto che la funzione degli storici sia quella di comprendere le diverse ragioni attraverso la contestualizzazione, scavando dentro le motivazioni di determinate scelte e strategie. Craxi ha solo bisogno di essere inserito nella biografia politica dell’Italia repubblicana, come peraltro mi pare stia accadendo.

C’è anche un capitolo sull’uso che l’ex leader avrebbe fatto dei social network, se fossero esistiti. In uno degli appunti, Craxi accusa “clan giudiziari e dell’informazione” di “punte altissime di delirio e mistificazione”, dilagando “sul terreno della persecuzione, della diffamazione”. Twitter o Facebook avrebbero cambiato le sue sorti?

Craxi ha sempre lamentato una censura da parte della grande stampa ma non ha fatto mai venir meno la sua voce: ha commentato, pur da lontano, nelle vesti di osservatore critico. Ci sono degli appunti, nel libro, in cui scrive “quest’uomo non deve parlare”. I famosi fax che inviava finivano spesso sistematicamente nei cestini della spazzatura delle redazioni dei giornali. Quindi Craxi con in mano uno strumento quale Twitter o Facebook avrebbe forse tenuto accesa l’attenzione sul suo caso. In questo senso credo che gli sarebbero serviti i social. Ma rimane pur sempre un uomo del ‘900, figlio della repubblica dei partiti, che mal si concilia con la dimensione della politica lasciata unicamente alla dinamica delle reti sociali. La personalità di Craxi si sarebbe, per esempio, mal conciliata con la brevità di una diretta Facebook. Non si sarebbe lasciato irretire da questo fenomeno, perché la politica per lui era una cosa talmente seria che non si poteva ridurre a un “cinguettio” di 400 caratteri. Ma gli avrebbero dato la possibilità di spiegare meglio il suo caso, la sua condizione, senza filtri giornalistici. Avrebbe potuto avere un impatto differente sull’immaginario collettivo. Da qui a dire che gli italiani avrebbero cambiato idea sulle vicissitudini craxiane è un aspetto che non possiamo decifrare.

(Francesco De Remigis)

“Santo Padre,
Don Verzè mi porta il Suo messaggio augurale. Grazie. La unica grande fiducia è in Lei. Offro le mie sofferenze per il mio paese e per le intenzioni di Vostra Santità.
B. Craxi”