Il cinema italiano sta attraversando un momento d’oro, questo lo sappiamo e non possiamo che esserne felici. I grandi autori si confermano grandissimi autori, da Paolo Sorrentino a Mario Martone, mentre le nuove leve, fratelli D’Innocenzo a Pietro Marcello per citarne due, dimostrano di poter assicurare un futuro solido, probabilmente straordinario, alla settima arte nostrana.
Definire Michelangelo Frammartino non è facile, ma sicuramente non possiamo non utilizzare parole di pregio o di stima. Il suo ultimo film, Il buco, è arrivato finalmente in sala dopo aver ottenuto il Premio Speciale della giuria al Festival di Venezia, ed è pronto a conquistare cinefili e non. I meno avvezzi potrebbero spaventarsi per l’assenza di dialoghi e commento sono, ma questo non è semplice lungometraggio. È qualcos’altro, qualcosa di diverso da ciò che ci circonda, qualcosa di incredibilmente mirabile.
Il buco – ricostruzione dell’impresa di un gruppo di speleologi del Nord nel 1961 che si diresse nel Sud per affrontare l’Abisso del Bifurto – è un’esperienza immersiva, un modo di entrare nelle immagini, di conoscere un linguaggio cinematografico speciale, unico. E, in epoca di piattaforme streaming, questo è un film pensato esclusivamente per essere visto al cinema, nel buio della sala. Pubblico e speleologi nella stessa sostanza. Un corpo a corpo con il territorio, con le persone, con la terra. Con ciò che siamo, tra silenzi e oscurità. Con la bellezza dell’esistenza, semplicemente. E la bellezza, Frammartino, ce la regala con un racconto visionario e poetico.
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