Il comparto alimentare sempre più nel mirino dei fondi di investimento. L’indicazione arriva dall’Osservatorio Pem – Private equity monitor della LIUC Business School che, numeri alla mano, mette in evidenza un fenomeno in ascesa. “Nell’ultimo quinquennio – afferma Francesco Bollazzi, responsabile dell’Osservatorio Pem Private equity monitor – è cresciuto il ruolo dell’industria alimentare quale target di operazioni di private equity, sia in termini di numero assoluto di operazioni, sia per quanto concerne il peso relativo sul totale di mercato. Rispetto al 2015, nel corso del 2020 il numero di deal conclusi è quintuplicato, arrivando a raggiungere quota 35 operazioni”. E la tendenza non si è arginata neppure nel 2021. “Anche quest’anno – continua Bollazzi – conferma l’attenzione per il comparto e promette una conferma su ottimi livelli. Nel corso dei primi otto mesi, le operazioni che hanno interessato le aziende del comparto alimentare sono state 21”.
Quali caratteristiche devono avere le aziende italiane dell’alimentare per risultare appetibili agli occhi dei Private Equity?
Per la maggior parte, le aziende italiane del comparto alimentare che risultano più attrattive per un operatore di Private Equity presentano dei tratti comuni che riflettono le caratteristiche delle aziende target nell’intera industry del private equity. In termini dimensionali, sono tipicamente medio-piccole, anche se non mancano deal che coinvolgono imprese di grandi dimensioni e marchi prestigiosi. Quanto alle caratteristiche economico-finanziarie, il fattore differenziante è una buona “generazione di cassa”, con cash flow (in gergo economico, la differenza tra le entrate e le uscite monetarie di una azienda in un dato periodo) abbondanti e stabili nel tempo.
A livello geografico, quali sono le più interessanti?
Geograficamente si collocano lungo tutto il territorio del nostro Paese, ma con una prevalenza nel Nord Italia. Aggiungo che le aziende più allettanti si distinguono anche per il loro orientamento internazionale e una penetrazione nei mercati europei ed extra-europei, grazie anche a una distribuzione capillare dei prodotti e dei servizi. Non da ultimo, il focus degli operatori nel comparto alimentare converge su aziende target che rappresentano eccellenze “Made in Italy” nel mondo, contraddistinte da elevata qualità dei prodotti e da un forte valore del brand.
Come viene calcolato il loro potenziale di crescita?
In generale, l’operatore deve intravedere un potenziale di crescita che consenta, in cooperazione con l’azienda target, di generare valore nel corso dell’holding period (ovvero il lasso di tempo in cui esiste la disponibilità nel portafoglio di una determinata attività), condizione essenziale per la profittabilità dell’operazione per entrambe le parti. E speculare è anche l’analisi nel caso di deal finalizzati alla ristrutturazione aziendale: l’operatore deve intravedere l’opportunità per l’impresa di uscire da una crisi che, a questo punto, viene giudicata riconducibile a motivazioni contingenti.
Qual è oggi il livello di attenzione degli investitori esteri per il Made in Italy alimentare?
Il nostro Paese continua a presentare interessanti opportunità di investimento per i player internazionali e i dati di mercato testimoniano come il Private Equity continui ad attrarre capitali stranieri all’interno del Paese. Il numero di operazioni e l’ammontare investito da player internazionali in Italia è in continua crescita anche grazie alla valorizzazione delle nostre eccellenze in tutti i settori. E i numeri del comparto alimentare Made in Italy nel 2020 confermano la buona attrattività del nostro Paese e del settore per gli investitori stranieri.
Di quante operazioni stiamo parlando?
Gli operatori internazionali hanno condotto ben il 46% delle operazioni di Private Equity nel food che si sono concluse nell’anno (16 operazioni delle 35 totali realizzate). Nei primi otto mesi del 2021 si riscontra, invece, una lieve inversione di tendenza; nell’alimentare solo 4 operazioni su 21 (pari al 19%) sono state guidate da operatori internazionali, ma l’attenzione sul settore rimane alta e anche quest’anno promette una conferma su ottimi livelli.
Qual è l’approccio preferito nelle strategie di entrata?
Gli operatori di Private Equity attivi in Italia tipicamente prediligono le operazioni di Buy Out, ovvero operazioni di ingresso nel capitale volte ad acquisire la maggioranza e a esercitare il controllo sull’azienda target. Queste operazioni sono solitamente finalizzate alla successione o al ricambio generazionale nelle imprese familiari, anche se in altri casi perseguono scopi differenti come, per esempio, la crescita e la valorizzazione dell’azienda, attraverso la ricerca di efficienza economico-finanziaria e operativa oppure attraverso fusioni, aggregazioni o scissioni/cessioni di rami d’azienda. E in questi casi, la formula scelta è quella delle operazioni di minoranza. Ma si registrano anche operazioni il cui l’obiettivo è la ristrutturazione aziendale. E qui si presuppone chiaramente un intervento di maggioranza da parte dell’operatore.
Come si declina questo scenario nel comparto alimentare?
Nel comparto alimentare, così come nella complessiva industry, si riscontra una preferenza per operazioni di Buy Out. Nel 2020, queste ultime sono state 28 (80% del totale), contro le 5 (14% del totale) operazioni cosiddette di Expansion, ovvero di apporto di capitale per lo sviluppo con l’acquisizione di quote di minoranza dell’azienda target. Solo 2 (6% del totale) sono infine classificabili nella categoria del Turnaround, una strategia che persegue la ristrutturazione di società target che versano in una situazione di crisi o di tensione economico-finanziaria.
Questi numeri si stanno confermando anche per l’anno in corso?
Sì, seppure con qualche distinguo. Nei primi otto mesi del 2021 si conferma, infatti, la preferenza per le operazioni di Buy Out: sono 17, ovvero l’81% del totale. Al contrario, differentemente da quanto rilevato nel 2020, si nota una maggior propensione verso le operazioni di Turnaround con 3 deal (14% del totale) e una conseguente minor propensione alle operazioni di Expansion dove si registra 1 solo deal realizzata (5% del totale).
Alcuni fondi hanno perseguito la creazione di poli di eccellenza nel settore, aggregando più realtà, non di rado sinergiche fra loro. Dal vostro osservatorio, ci sono al momento investitori che stanno lavorando in questa prospettiva?
Si tratta senza dubbio di una tendenza tipica che si registra nel panorama italiano del Private Equity e, in parallelo, anche nel comparto alimentare. L’aggregazione in un polo industriale di piccole-medie eccellenze è finalizzata alla creazione di player di dimensioni rilevanti che siano in grado competere a livello globale e far fronte alle sfide dei mercati internazionali. Nella maggioranza dei casi, la realizzazione di questi poli di eccellenza avviene attraverso la cosiddetta strategia di add-on, con la quale un’azienda partecipata da un operatore di Private Equity realizza, sotto la regia del fondo, una serie di acquisizioni mirate alla realizzazione di un polo industriale significativo. In alternativa, gli operatori di Private Equity possono acquisire in portafoglio diverse società, guidati da una logica volta a generare e massimizzare le sinergie tra le aziende presenti in portafoglio.
Qualche esempio concreto?
Nel comparto alimentare ci sono numerosi esempi della prima opzione. Tra questi, Xenon Private Equity, che ha creato un polo di eccellenza nella trasformazione e distribuzione di pesce e prodotti ittici surgelati tramite l’azienda Panapesca e i successivi add-on, primo fra tutti quello della società romagnola Il Faro Quality Fish. Un altro caso è quello di Investindustrial, che attraverso Italcanditi ha realizzato un polo industriale alimentare con i successivi add-on di Comprital Group, Prodotti Rubicone e Ortofrutticola del Mugello. L’operatore BC Partners si è, invece, focalizzato sullo sviluppo delle sinergie di due aziende del comparto presenti in portafoglio: Forno d’Asolo e Bindi.
(Manuela Falchero)
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