Caro direttore,
il premier italiano Giuseppe Conte ha chiesto alla Ue l’utilizzo integrale del cosiddetto “Fondo salva stati” o Mes (European Stability Mechanism), dotato di 500 miliardi di euro. Sarebbe questo, secondo Conte, il vero bazooka per contrastare sul nascere la vera emergenza coronavirus: quella economica indotta dalla pandemia. L’iniziativa del premier italiano ha suscitato ancora una volta reazioni contrastanti: anzitutto – e nuovamente – sul piano strategico della comunicazione istituzionale.



Conte ha parlato brevemente, ieri pomeriggio, con il Financial Times, che ha dato rilievo alla cosa dopo la chiusura dei mercati europei. Il cuore dell’intervista sono queste parole: “L’Esm è stato costruito con un diverso tipo di crisi in mente, così dev’essere ora adattato alle nuove circostanze così da renderne utilizzabile l’intera potenza di fuoco”, ha detto Conte. “La strada da seguire è quella di chiedere l’apertura di linee di credito a tutti gli Stati membri per aiutarli a sostenere le conseguenze della crisi Covid, sotto la condizione di piena accountability (responsabilità finanziaria) di come le risorse vengono spese”.



È un passo-fatto compiuto che ha posto molte questioni stringenti. Chi ha autorizzato Conte a porre la questione al Consiglio Ue di martedì scorso? È una linea preventivamente condivisa almeno con l’intero Consiglio dei ministri? E perché non ne è stata data informazione al Paese, almeno al suo Parlamento sovrano? In che termini è stata posta nella videoconferenza Ue? E poi: perché Conte ha deciso – evidentemente in autonomia – di parlarne solo due giorni dopo? Perché non lo ha fatto – almeno – con uno degli organi d’informazione italiani che ospitano quotidianamente le sue interviste e ha scelto invece una testata neppure più basata in Paese Ue?



In ultima sintesi: come mai Conte ha assunto in prima persona – e par di capire da solo – un’iniziativa che può avere come conseguenza concreta uno sbocco “greco” della crisi italiana? E questo è avvenuto durante una fase di sospensione parziale della democrazia costituzionale su scala nazionale: una sospensione che prevedibilmente sarà inasprita nei prossimi giorni e promette di prolungarsi in tempi per ora indefinibili.

L’articolo di FT ricomprende anche una battuta di una fonte istituzionale anonima francese: “Romperemo il tabù della solidarietà europea?”. In altra parte dell’articolo viene citata una dichiarazione parlamentare del ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire (un terza linea istituzionale dopo il presidente Emmanuel Macron e il primo ministro Edouard Philippe): “O l’eurozona risponderà in maniera unitaria a una crisi economica che sta emergendo ogni giorno più grave o tutto è in gioco e a rischio di sparire”. 

La sceneggiatura sembra dunque leggibile. La Francia (già alle prese con una complessa crisi socioeconomica interna prima dell’arrivo del virus) sembra estremamente interessata per sé a misure-bazooka di tipo fiscale su scala Ue: opzione su cui è peraltro nota la chiusura totale della Germania e di altri Paesi del Nord Europa. Naturalmente Parigi preferisce non esporsi: e spinge in avanscoperta Roma anche se – così facendo – il premier italiano finisce per pre-dichiarare la virtuale crisi finanziaria del Paese. Ancora una volta: su quali basi? E con quale strategia?

Cinque anni fa la Grecia (con un debito al 180%) dovette arrendersi alla Ue (e a Bce e Fmi): principalmente perché i suoi titoli governativi erano nei portafogli delle banche tedesche e francesi. Ma il premier Alexis Tsipras, prima di negoziare la resa, convocò a tamburo battente un referendum nazionale. L’emergenza epidemica ne ha appena rinviato uno proprio in Italia: allontanando ancor più un prevedibile appuntamento elettorale nel paese. Ma visto quanto si sta aggravando il versante istituzionale della crisi – a fianco di quello sanitario ed economico – sembra riproporsi una volta di più l’esigenza che le massime autorità di garanzia della democrazia repubblicana vigilino in modo costante e se necessario proattivo su tutte le mosse dell’esecutivo e in particolare del suo premier. Altrimenti il rischio di sbocchi istituzionali drammatici almeno quanto l’epidemia potrebbe diventare non più irrealistico.

Il fallimento e il commissariamento di un Paese come l’Italia – che a dispetto di paralleli periodici e malauguranti non è mai stata la Grecia e neppure la Spagna o l’Argentina – non può essere nelle mani di un premier mai eletto dagli italiani. La parte del Paese più colpita dal coronavirus è anche quella più forte: quella che presenta conti economico-finanziari per nulla “da tribunale”. È quella alle cui imprese il cosiddetto decreto Cura-Italia avrebbe dovuto destinare il grosso di 25 miliardi già concessi dalla Ue a Conte. Il quale invece ha deciso di spenderli per aggiungere altro assistenzialismo statalista al Centro-Sud.

Nove anni fa il presidente Napolitano conferì preventivamente a un ex commissario Ue come Mario Monti il laticlavio a vita per costituire un governo di salute pubblica. Sui media italiani degli ultimi giorni si è invece potuto leggere che il premier ha convinto il presidente di Invitalia, Domenico Arcuri, ad accettare il commissariato nazionale all’emergenza solo in cambio della promessa di una poltrona al vertice della Cassa Depositi e Prestiti. E questo soltanto al fine di respingere la candidatura di Guido Bertolaso: che ora svolge lo stesso ruolo in Lombardia. Arcuri ha comunque in tasca miliardi di tasse di tutti gli italiani (soprattutto quelli del Nord); Bertolaso opera invece – per offrire sanità pubblica d’emergenza – con capitali e risparmi privati di grandi imprenditori del Nord. I grandi columnist nazionali hanno già arricciato nasi e inarcato sopracciglia. Ma anche loro guardano e sentenziano dalla “zona bianca” di Roma. Da cui nessuno è più salito dal 21 febbraio nella zona rosso-sangue di Milano, Bergamo, Lodi, Brescia, dell’Alta Emilia. Chissà come verrà accolto chi un giorno deciderà di risalire. 

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