“Money don’t talk, it swears”, il denaro non parla, impreca, cantava Bob Dylan in una delle sue canzoni più belle e feroci della sua carriera, It’s alright ma (I’m only bleeding), un secolo fa. Era il 1965 e il mondo dell’industria discografica era ben diverso da oggi. Innumerevoli sono le storie di artisti brillanti, finiti in cima alle classifiche di vendita con i loro dischi che non hanno mai ricevuto un centesimo per via di contratti truffa, intestati a terzi, che così incassavano loro i diritti d’autore e i diritti di edizioni che sarebbero spettati, almeno in parte, all’artista. Lo stesso Bob Dylan condusse a fine anni 60 una dura battaglia legale con il suo ex manager Albert Grossman per rientrare in possesso dei diritti d’autore delle sue canzoni, vincendola, e aprendo la sua casa editrice (publishing house) che nel corso degli anni, come avrà notato chi legge anche le noticine piccole piccole sui dischi, nel tempo ha cambiato nome, rimanendo però fermamente in possesso del cantautore: Dwarf’s Music, Special Rider, etc. Pensiamo poi alla battaglia di Bruce Springsteen con il suo manager durata anni che gli impedì anche di pubblicare dischi per tornare in possesso pieno dei diritti sulle sue canzoni.
Erano i tempi in cui i dischi si vendevano in milioni di copie e avere i diritti di edizioni significava grosse somme di denaro.
Tutto il mondo in questi giorni ha parlato della decisione da parte dell’artista premio Nobel di vendere al gruppo Universal (attenzione: alla casa editrice, la publishing house, non la casa discografica, che rimane la Sony) i diritti editoriali di tutte le sue canzoni incise dal 1961 al 2020, ultimo disco incluso. La cifra, 300 milioni di dollari (anche se non confermata ufficialmente) equivale per circa 600 canzoni al valore di 500mila dollari a singola canzone. Non è neanche molto, dato che nel caso di Dylan si parla di un premio Nobel, di un patrimonio dell’umanità, del più grande autore di canzoni di sempre e che tale rimarrà anche per i secoli a venire. Se si pensa che la cantante dei Fleetwood Mac, Steve Nicks, che ha firmato molte meno canzoni, ha fatto la stessa operazione per circa 100 milioni di dollari, sembra che Bob Dylan si sia fatto un po’ fregare. Tenendo poi conto che a oggi risulterebbero 6mila le sue canzoni incise da altri artisti, su ognuna delle quali il gruppo Universal trarrà il suo guadagno.
E’ una operazione che lascia molti dubbi, sulla sua valenza di integrità artistica, visto anche il degradante spottone che il gruppo Universal ha messo subito online appena firmato il lucrativo contratto, un video di immagini storiche dove appare Dylan e la scritta, banalmente degna del marketing di una casa di lavatrici, “Le canzoni di Bob Dylan appartengono alla nazione (americana), appartengo al mondo, adesso sono universali (Universal Music group)”.
Ma è a conti fatti, un ottimo piano pensionistico da parte di Bob Dylan: niente di più, niente di meno. Come qualunque impiegato pubblico, l’artista, che compirà 80 anni il prossimo maggio, sente avvicinarsi la morte e allora ha pensato bene di sistemare se stesso e familiari. Non è un modo di guadagnare e speculare, come hanno scritto fan scandalizzati: Bob Dylan non ha certo bisogno oggi di 300 milioni di dollari da spendere in ragazzine o auto di lusso. Tenendo conto che da oltre 30 anni si esibisce ogni anno dai cento a anche 200 concerti all’anno, per cifre che variano da 50mila a 100mila dollari a sera, facendo un conto veloce e approssimativo, negli ultimi trent’anni Dylan ha portato a casa circa 7 milioni di dollari all’anno, il che moltiplicato per trenta fa circa 225 milioni di dollari. Tenendo poi conto dei diritti d’autore accumulati in oltre 50 anni, dei possedimenti immobiliari (una villa a Malibu, una fattoria nel Minnesota, un castello in Scozia e chissà quante altre) si può immaginare il patrimonio personale del signor Dylan. Non aveva certo bisogno di 300 milioni di dollari. E allora perché questa mossa?
Parlavamo di piano pensionistico. Dylan ha quasi 80 anni, probabilmente sta pensando a una ritiro dalle scene e soprattutto alla sua morte, come tutti gli esseri umani. Ha 6 figli,16 nipoti e almeno due divorzi sulle spalle (a proposito della prima moglie, Sara, nell’accordo di divorzio stipulato nel 1977, i due si erano accordati che tutte le canzoni di Dylan composte tra il 1966 e il 1976, periodo di matrimonio, alla ex moglie sarebbe spettato il 50% dei diritti d’autore).
E poi è arrivato il Covid. Per la prima volta dopo trent’anni, nel 2020 Dylan non ha potuto fare concerti e così sarà anche nel 2021 come per tutti i musicisti. Inoltre oggi i dischi non si vendono più. I buontemponi che parlano di ritorno delle vendite dei vinili, non sanno evidentemente che si parla di poche migliaia di copie al mondo, mentre i cd quasi tutti non si stampano più. Le piattaforme online come Spotify garantiscono diritti irrisori di guadagno. Lo ha ben spiegato David Crosby, un altro che si è venduto l’intero catalogo: “Non posso più lavorare, lo streaming ruba i miei soldi, ho famiglia e un mutuo da pagare, è l’unica opzione che mi resta. Lo streaming non ci paga e il Covid ha bloccato ogni concerto dal vivo. Se potessimo essere pagati per i dischi e per suonare dal vivo, nessuno di noi venderebbe il suo catalogo di canzoni”.
Questa la realtà. Dylan si è sbarazzato di un fardello che dal punto finanziario era solo un impiccio, agendo da consumato uomo d’affari di Wall Street.
A costo di firmare un contratto come quello che ha fatto Dylan: la Universal ha adesso il diritto di usare le sue canzoni per qualunque cosa, dalle pubblicità (speriamo non usino Masters of war per la vendita di pistole), film, video giochi. Inoltre la vendita del publishing impedisce a Bob Dylan di guadagnare un solo dollaro da ogni disco venduto
“Publishing house è come una casa editrice, però se uno vende i suoi diritti d’autore per una collezione di canzoni ad una publishing house, non continua a incassare come autore con quei brani… solo per lo ”streaming” e i passaggi in radio” ci ha spiegato Peter Bonta, musicista americano che vive da anni in Italia.
Questi 300 milioni dunque sono da pensare come l’eredità che il cantante lascerà ai suoi familiari, avantaggiati dal fatto che non dovranno pagare tasse di successione come se avessero ereditato una casa editrice, eventuali discussioni o anche litigi per la divisione del valore della stessa casa editrice etc. Una cifra servita su un piatto d’argento (oltre al patrimonio personale di Dylan di cui si diceva prima, che verrà suddiviso come lui vorrà ai parenti o a istituti di beneficenza, magari).
La morale di questa storia? “It’s not dark yet, but it’s getting there”… Un mondo sta finendo, e io non mi sento tanto bene…