Negli ultimi anni, il cinema europeo, e quello francese in particolare, sembra aver riscoperto il valore del film giudiziario, il dramma in tribunale capace di inchiodare lo spettatore alla poltrona e al tempo stesso di riflettere su elementi cardine della società, partendo da Saint-Omer fino al grande successo di Anatomia di una caduta. Nello stesso anno del film Palma d’oro diretto da Justine Triet, il festival di Cannes propone nella Quinzaine des Cinéastes, un altro film giudiziario, secondo chi scrive ancora più bello, dal titolo Il caso Goldman, arrivato in qualche sala nostrana lo scorso maggio.



Il film, diretto da Cédric Kahn, parte da un vero processo, quello che si svolse nel 1976 a carico di Pierre Goldman, militante di estrema sinistra, presunto terrorista internazionale, imputato di un omicidio compiuto durante una rapina. Lui si dice innocente, ma il processo diventa uno spettacolo, anche per merito del carisma del presunto colpevole.



Kahn, insieme a Nathalie Hertzberg come sceneggiatrice, sceglie un fatto di cronaca esemplare e lo immortala nel modo più chirurgico possibile per fare emergere di quel caso tutti gli elementi che ci possono portare a ragionare sul presente.

Perché, al di là della questione politica di quegli anni, che in Francia non erano di piombo come in Italia, ma producevano anche lì un certo numero di vittime (tra cui lo stesso Goldman, ucciso tre anni dopo dall’estrema destra o dai servizi segreti francesi), quello che riesce a raccontare in modo illuminante e appassionante Il caso Goldman è la costruzione e la manipolazione dell’opinione pubblica a partire dal terreno sdrucciolevole delle verità e delle apparenze, un terreno di cui il tribunale è luogo davvero emblematico, perché, come si dice all’inizio, è una perfetta metafora dell’arte e dello spettacolo, un teatro contro il teatro, una messinscena per raggiungere la verità, soprattutto un paradosso istituzionale che perde il controllo di se stesso.



Se Goldman (interpretato stupendamente da Arieh Worthalter) opera per rendersi un capro espiatorio, un nuovo Dreyfus vittima dell’antisemitismo francese, allo stesso tempo gioca su una figura ambigua di criminale, che non nega la sua natura, ma ne piega le radici ideologiche, che mostra il suo amore per il carcere, mentre cerca di riscattare il proprio nome, che agisce da populista e da estremista allo stesso tempo. Ecco perché la sua personale costruzione del suo personaggio, fuori anche dalle regole legislative, quasi andando contro se stesso, infiamma gli animi, sporca le acque, divide e polarizza, ecco perché Kahn la vuole raccontare, perché anticipa metodi comunicativi che diventeranno pane per media e movimenti politici dei cinquant’anni successivi.

Kahn supporta questo lavoro di profondità drammaturgica con una precisione di regia straordinaria: camera quasi sempre fissa, ma zoom e messa a fuoco che scavano dentro la scena, la macchina da presa sembra una presenza esterna che si insinua e rende lo spettatore una sorta di complice attivo del protagonista, la mancanza di musica o tecniche di narrazione comuni permette di creare un’ipnosi anche nei gesti dei singoli attori impedendo di distogliere lo sguardo. In quello che è il genere della parola per eccellenza, Kahn lavora con altrettanta finezza sull’immagine, riflettendo su come ciò che vediamo non può essere la verità, ma la summa di una serie di processi culturali che si mettono di continuo in gioco e che definiscono la nostra percezione. Una sorta di bugia in divenire che muta in verità, proprio come l’arte, o come il cinema, una menzogna ripetuta 24 volte al secondo, parafrasando Godard, convinto del contrario.

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