La domanda da porsi è come sia possibile che l’Italia conservi la posizione di seconda manifattura d’Europa e che sieda ancora tra le grandi potenze industriali del mondo. Certo, una risposta potrebbe essere quella che potremmo rubricare sotto la voce “mal comune mezzo gaudio” – la globalizzazione ha posto problemi per tutti i Paesi e tutti i Paesi devono fare i conti con i propri problemi interni -, ma da noi si ha l’abitudine ad esagerare. Le informazioni che si possono assumere leggendo gli ultimi bollettini del Centro studi di Confindustria e dell’Associazione bancaria dicono che crollano gli investimenti e scende sensibilmente l’erogazione del credito a fini produttivi. Se siano le banche a stringere i cordoni o le imprese a chiedere meno poco importa. Il fenomeno è visibile da entrambe le angolazioni e impatta negativamente sulla crescita e la creazione di posti di lavoro.



L’esatto opposto, cioè, di quello che occorrerebbe per dare risposte a cittadini scoraggiati perché immersi fino al collo nel mare dell’incertezza: incertezza per la dinamica delle relazioni internazionali – guerre commerciali e ventilate guerre sul campo di battaglia – e incertezza per il quadro politico interno dove le fibrillazioni tra le forze di governo e tra queste e quelle dell’opposizione sono all’ordine del giorno e di più volte al giorno. Insomma, l’esatto contrario della rassicurante gestione della quotidianità che da molto tempo è la massima aspirazione degli italiani: non più popolo di guerrieri, ma assemblea permanente dello straordinario partito dei Tengo Famiglia. Al punto che l’assoluta maggioranza degli iscritti (naturalmente virtuali) è pronta e disponibile a scambiare dosi crescenti di libertà per il bene assoluto della garanzia: alla casa, alla promozione, al quieto vivere.



Ciò che meraviglia, a questo punto, non è la prudenza di chi attende occasioni migliori per mettere a repentaglio carriera e capitali e sceglie di stare in posizione di difesa, ma l’irrefrenabile desiderio di rischiare che, nonostante tutto, continua ad assistere un drappello via via più esiguo di persone all’interno della grande famiglia degli imprenditori. Contro ogni evidente convenienza c’è ancora chi si cimenta sul mercato nonostante un’anacronistica ostilità ambientale.

Che cosa potrebbe accadere se a questi campioni fosse data la possibilità di esprimersi al meglio senza il fardello di tasse insopportabili, trappole burocratiche, insidie giudiziarie, diffidenze diffuse, presunzioni di colpevolezza per ogni problema che si presenta? A quale livello di grandezza potrebbe tornare a esprimersi il genio italico ammirato all’estero più che in patria? Quali nuovi traguardi potremmo raggiungere nell’arte, nella tecnica, nel pensiero?



Senza voler fornire giustificazioni a chi pur di arrivare non rispetta le regole – le scorrettezze vanno sempre e comunque sanzionate -, dobbiamo riconoscere che il mettere i bastoni tra le ruote di chi ha voglia di correre sta diventando un pericoloso sport nazionale alimentato da un’insana cultura del sospetto. Tutto si perdona in questo Paese tranne che il successo: frutto, per definizione, di chissà quali diaboliche pratiche.

Il sacrificio, lo studio, il merito non sono contemplati nel mazzo delle spiegazioni possibili. Ed è il modo migliore per legittimare una sorta di tirannia della mediocrità che si trasforma in sistema in una società condannata a diventare incapace e arrogante al tempo stesso. Restano le poche e incredibili eccezioni di chi mantiene acceso il fuoco dell’intrapresa nonostante i fiumi d’acqua versati per spegnerlo. Chiamarli eroi è una sconfitta.