Il declino demografico del nostro Paese è sintetizzato in tre numeri contenuti nelle recenti analisi pubblicate dall’Istat sull’andamento della popolazione residente in Italia. In particolare nell’ulteriore riduzione di: 384 mila residenti, 16 mila nascite e 87 mila matrimoni nel corso del 2020 rispetto all’anno precedente.
L’effetto della pandemia, secondo l’istituto di statistica nazionale, ha contribuito all’aumento di 99 mila decessi, alla contrazione di 9 mila nascite e pressoché alla quasi totalità del calo dei matrimoni. Il dato sulle nascite è destinato a subire un ulteriore decremento di circa 20 mila unità nell’anno in corso per effetto della riduzione dei concepimenti nella seconda parte del 2020.
I numeri legati alla pandemia, per quanto rilevanti, non modificano comunque il trend demografico che risulta negativo dal 2015. Negli ultimi 5 anni la popolazione residente è diminuita di oltre un milione (-1,6 milioni nell’ultimo decennio per la componente dei residenti italiani), nonostante il contributo delle nuove cittadinanze rilasciate agli stranieri, con una crescita degli immigrati che, pur rimanendo positiva in termini di saldo migratorio per l’effetto delle ricongiunzioni familiari e dei nati nel nostro Paese, non riesce a compensare il saldo negativo tra decessi e nuove nascite della popolazione autoctona.
La relazione tra l’andamento della popolazione e i tassi della crescita economica non gode di particolari attenzioni nel dibattito politico italiano. Di tanto in tanto sorge la preoccupazione per gli effetti dell’invecchiamento della popolazione sulla sostenibilità della spesa pubblica, in particolare di quella previdenziale. Un argomento ampiamente utilizzato anche per sostenere l’esigenza di aumentare le quote d’ingresso di nuovi immigrati. La lettura prevalente, anche per la maggioranza degli esperti sulla materia, ritiene che la riduzione dei matrimoni e delle nascite non sia altro che la conseguenza logica della bassa crescita dell’economia, della riduzione delle opportunità di lavoro per le nuove generazioni e della crescita dei rapporti di lavoro a termine. Fattori che, nell’insieme, hanno comportato un ritardo nelle scelte di vita dei giovani e un aumento dei tempi di permanenza nei nuclei di origine.
Queste valutazioni trovano conferme nelle statistiche del terzo millennio. Molto meno in quelle rilevate tra la seconda parte degli anni ’70 e la prima degli anni ’90, periodo che ha registrato una brusca inversione dei matrimoni e delle nascite, nonostante in quegli anni la crescita dell’economia e del reddito sia risultata in linea, o persino superiore, alla media dei Paesi aderenti alla Comunità europea.
L’inversione di tendenza, più credibilmente, è stata la conseguenza del mutamento dei valori e dei vincoli di reciprocità, delle obbligazioni che assicuravano la tenuta dei rapporti familiari in una proiezione intergenerazionale, sostituiti progressivamente dal primato dell’io e della stima connessa alla realizzazione del sé. Questo cambiamento è avvenuto in tutti i Paesi sviluppati, con l’affermazione dei cosiddetti diritti civili e le pari opportunità, accompagnato però da un ripensamento delle politiche del welfare volte a supportare la genitorialità responsabile, la conciliazione dei carichi familiari con quelli lavorativi e la natalità. In buona sostanza, nel nostro Paese è mancata la capacità di rigenerare su nuove basi una funzione laica e condivisa del ruolo generativo ed educativo delle famiglie.
Il crollo dei matrimoni religiosi, precipitati dal 90% sul totale della fine degli anni ’70 al 47% del 2019, è stato solo marginalmente compensato da quelli civili (+65 mila) nell’ambito di un dimezzamento del numero totale dei riti celebrati (da 370 mila a 184 mila). Il fallimento della strategia dell’espansione dei diritti civili, contrapposta alla funzione educativa e generativa delle famiglie, è ampiamente confermata dai numeri ridicoli delle unioni civili celebrate dopo la riforma del 2015.
Fenomeni che hanno paradossalmente esaltato la funzione protettiva delle famiglie verso i figli e portato alla progressiva disgregazione del legame esistente tra le aspettative di consumo e la capacità dei singoli di contribuire alla crescita del reddito familiare. Un cambiamento delle gerarchie dei valori e dei comportamenti che, unitamente al crescente divario che si è generato tra i percorsi educativi e formativi e le dinamiche reali del mercato del lavoro, offre una spiegazione ragionevole al notevole incremento del numero dei giovani che non studiano e non lavorano, oltre i 2 milioni. Un triste primato negativo italiano tra i Paesi aderenti all’Ue.
Molti studi internazionali hanno sottolineato la rilevanza del contributo alla crescita economica offerto dal tasso di natalità in termini di quantità e di orizzonte temporale dei consumi e degli investimenti delle famiglie. Nei tempi recenti un Libro bianco predisposto dalla Commissione europea sulle politiche del welfare finalizzate a rafforzare i servizi alle persone ha messo in rilievo la relazione esistente tra la crescita ufficiale dell’occupazione, in particolare di quella femminile, nei settori dell’assistenza e del lavoro di cura e la spesa pubblica dedicata al sostegno della natalità e alla conciliazione dei carichi tra famiglia e lavoro.
Nel caso italiano, le mancate riforme delle politiche fiscali e del welfare destinate a sostenere le famiglie si traducono nel divario negativo di 1,4 milioni di posti di lavoro, a parità di popolazione, nei comparti della sanità, dell’assistenza e dei servizi alla persona, rispetto alla media dei Paesi Ue. Paradossalmente il recupero di questo ritardo potrebbe rappresentare un’importante leva per sostenere la ripresa della economia e dell’occupazione, a condizione che le politiche di sostegno alle famiglie vengano assunte nella loro complessità come uno dei motori principali della crescita economica e sociale.
La recente approvazione della legge delega titolata “Family Act” identifica i campi di intervento: l’introduzione dell’assegno unico per i figli fino alla maggiore età anche per le famiglie fiscalmente incapienti, l’ampliamento della fornitura di asili nido e dei sostegni fiscali per l’acquisto di servizi educativi di cura per i minori e le persone non autosufficienti. Ma i buoni propositi rischiano di essere vanificati dalla carenza di risorse e da un approccio inadeguato ad affrontare la gravità della situazione.
I potenziali obiettivi di ripresa della natalità sono purtroppo condizionati dalla riduzione demografica del numero delle donne fertili, condizione che rende realistico l’obiettivo di riportare le nuove nascite sui livelli dell’inizio anni 2000 (550 mila) a patto di offrire certezze di medio lungo periodo ai sostegni destinati alle famiglie. Ma questo obiettivo rischia di essere immediatamente vanificato dalla messa in campo di un’ipotesi di riforma fiscale sui redditi delle persone fisiche tutta indirizzata a valorizzare la condizione individuale dei redditi e che sottrae risorse alla piena attuazione dell’assegno unico e per le detrazioni fiscali ipotizzate nel Family Act. Del resto la riproposizione in piena pandemia del tema dei diritti civili nell’ottica dell’ideologia gender la dice lunga del grado di consapevolezza della gravità del problema.
Il ruolo educativo delle famiglie, e delle relazioni basate sull’esercizio dei doveri e dei vincoli di reciprocità tra le persone, viene sottolineato in un recente saggio (Il futuro del capitalismo, ed. Laterza) da Paul Collier, un autore non certamente sospettabile di essere un tradizionalista religioso, come uno dei capisaldi sul quale ricostruire un’economia socialmente sostenibile e partecipativa. Consiglio la lettura a tutti coloro che hanno profetizzato la fine delle famiglie
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