C’è un’illusione che spesso domina le analisi della realtà economica quando si iniziano a mettere in luce i problemi nel sistema occidentale, chiamato sinteticamente capitalismo. L’illusione è quella che si possano affrontare i limiti del libero mercato e le disuguaglianze sempre più marcate che ne discendono semplicemente cambiando modello di sviluppo. Come se i protagonisti dell’attuale sistema economico, cioè i lavoratori-cittadini-consumatori, fossero dei burattini per i quali basta sostituire il vecchio copione per recitare un’altra commedia.
E così la pretesa di rimediare agli squilibri si trasforma nella scorciatoia di cambiare il sistema di potere affidando allo Stato il compito di redistribuire ricchezza e servizi anche se la storia ha sufficientemente dimostrato come il dirigismo statale abbia un elevato grado di inefficienza nella gestione operativa e nelle scelte strategiche. Certo un intervento statale è utile, anzi indispensabile per rispondere ai servizi pubblici essenziali, per controllare i monopoli naturali, per dettare e far rispettare le regole perché il mercato possa funzionare nell’interesse generale. Non dimenticando tuttavia che lo Stato dovrebbe garantire gli obiettivi, per esempio in campo sanitario i livelli essenziali di assistenza, ma per raggiungere i quali non si dovrebbe escludere una partecipazione concorrenziale (cioè che si muove insieme) di pubblico e privato. In un concreto spirito di sussidiarietà.
Ma se i modelli economici sono importanti è necessario allora guardare non solo ai sistemi e alle regole, ma anche ai protagonisti, a quei lavoratori, cittadini e consumatori che si muovono sullo scenario economico e sociale e che compiono le loro scelte rispettando usi, costumi e soprattutto valori, obiettivi ed emozioni. È proprio una riflessione su questi fondamenti dell’azione umana che si sofferma l’ultimo libro di Luigino Bruni: Il capitalismo e il sacro (Ed. Vita e pensiero, 2019), un libro che nasce da una serie di articoli pubblicati sul quotidiano Avvenire, poi riscritti e ampliati per una serie radiofonica nella rubrica “Uomini e profeti” la domenica mattina su Rai Radio 3.
Il filo conduttore del libro parte dall’osservazione che vede nell’attuale capitalismo una nuova religione, anzi una nuova idolatria dove il culto del denaro è diventato il valore centrale della vita e dell’impegno quotidiano. Bruni sottolinea poi che “la religione biblica è quella che più si è intrecciata con l’economia” illustrando come fin dai libri dell’Antico Testamento si sottolinei passo dopo passo l’esigenza di scoprire e valorizzare le dimensioni del dono e della gratuità come motori di una corretta dinamica economica.
È proprio su questo fronte che si verifica lo scontro con le impostazioni economiche attuali. La gratuità e il dono, elementi che fanno parte della natura umana e che tutti in qualche modo offrono e ottengono, diventano un tabù per la società fondata sui contratti, sul profitto, sulla gerarchia. Scrive Bruni: “Le imprese e i mercati si proteggono dalla gratuità per proteggersi dalla propria morte. Perché il dono vero e non addomesticato chiama per sua natura l’uguaglianza e la reciprocità”.
La Bibbia, dalla Genesi ai profeti, al Nuovo Testamento ci offre pagine in cui il denaro compare regolarmente. Dall’adorazione del vitello d’oro ai trenta denari con cui è stato pagato Giuda per il suo tradimento, la storia della salvezza è sempre una condanna dell’idolatria del denaro e del potere, ma non dimenticando che lo stesso denaro può essere usato positivamente come accade alle monete che il samaritano dà all’oste perché ospiti e offra da mangiare al viandante percosso dai briganti.
Ecco perché il problema di fondo dell’attuale società non è un astratto “modello di sviluppo”, ma è la persona che rischia sempre di più di diventare uno strumento per conquistare il nuovo idolo della ricchezza. Le scelte personali, la partecipazione, la condivisione possono invece costruire una realtà sociale più giusta non rinunciando a quella dimensione fondamentale del vivere che è la libertà.