Esistono, nel nostro ordinamento, dei lavori che non sono compensati o lo sono solo latamente, e comunque non con una retribuzione intesa in senso stretto. Al di là delle ipotesi normativamente previste di lavoro gratuito, ci sono molti casi di lavoro che sfuggono alle logiche del “corrispettivo” cui è informata la causa (in senso tecnico) del contratto di lavoro ai sensi dell’art. 2094 del codice civile.
Ricordo, ove ve ne fosse bisogno, che nel nostro ordinamento il combinato disposto di alcune norme del codice civile e della Costituzione impone che il lavoro debba essere retribuito, e retribuito in una misura inderogabile fissata (in parte dalla legge ma soprattutto) dai contratti collettivi.
È il caso della mamma che, contenta che suo figlio la aiuti al disbrigo di alcune incombenze domestiche, lo ricompensa con una paghetta; del marito che mai pretenderà dalla moglie una retribuzione per aver tagliato l’erba del giardino o aver gettato la spazzatura; degli amici che insieme un pomeriggio si dedicano a coltivare l’orto di uno dei due; del religioso che si dedica con frequenza quotidiana all’insegnamento in favore dei novizi del convento cui appartiene; dello studente di un istituto professionale che realizza, come parte del proprio percorso di apprendimento, un taglio di capelli a un soggetto esterno alla scuola che frequenta.
Mi sono dilungato sugli esempi per “prepararmi il terreno”, ossia per consentire al lettore di moltiplicare immagini che consentano di meglio accogliere l’argomento che vorrei sostenere.
Gli esempi citati sono accomunati dallo spirito di solidarietà (familiare, amicale, ideale) o anche dall’intento formativo (che si intreccia al primo) sottostanti al rapporto; nessun ente ispettivo chiederebbe mai la soggezione a contribuzione previdenziale della regalia fatta al ragazzo che sta imparando a tenere in ordine la propria stanza o del cesto di pomodori offerto all’amico che ci ha aiutato una domenica nell’orto.
La Costituzione italiana fornisce una definizione di lavoro molto ricca: è infatti lavoro ogni attività o […] funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società; per cui anche le attività sopra esemplificate son lavoro, e come tale è giusto che in loro favore si estendano (o si possano estendere) alcune norme protettive del rapporto di lavoro (ad esempio, l’assicurazione per gli infortuni per gli studenti degli istituti professionali o le norme sull’orario di lavoro). In termini più generali, si può dire che, alla luce della causa (in senso tecnico, ossia: prestazione resa per solidarietà) che colora il rapporto, per tali rapporti è ragionevole pretendere l’applicazione di quelle norme protettive che trovano ragione nel fatto in sé di rendere una prestazione; ma di certo non si potranno applicare quelle norme che risiedono nella causa tipica del lavoro subordinato (ossia, lo scambio di prestazione vs retribuzione).
Fatta questa premessa, il caso che vorrei presentare è il seguente: in alcune comunità di accoglienza di soggetti svantaggiati, è parte del percorso terapeutico svolgere un’attività lavorativa (sia pure spesso di mansioni elementari) in occasione della quale (e non a corrispettivo della quale) viene corrisposta una somma di denaro minima, nell’ordine di alcune decine di euro, che trova ragione nel percorso formativo o riabilitativo della persona. Con questa elargizione, si vuole responsabilizzare la persona, premiandola per l’interesse che manifesta per il recupero di quelle dimensioni dell’umano che, per le più diverse ragioni, in lei sono per così dire sopite o annichilite; In tal senso, la somma assomiglia più al premio che la mamma dà al figlio che tiene in ordine alla stanza o al bel voto che il professore dà all’alunno diligente.
Ora, una situazione del genere non è esente da rischi di contenzioso, visto che il “lavoratore” potrebbe – magari a distanza di anni – invocare la retribuzione; oppure un ente ispettivo, anche per il legittimo timore di possibili abusi, potrebbe interessarsi al rapporto pretendendone una diversa qualificazione.
A mio avviso, per inquadrare una tale vicenda, per le ragioni che il breve spazio che mi viene concesso non posso esplicitare, non sono sufficienti le norme esistenti sul lavoro gratuito, né quelle sul tirocinio (rectius, sui tirocini, visto che ciascuna regione potrebbe regolare entro certi limiti la disciplina del tirocinio). Non appartenendo alla schiera dei giusnormativisti che, soprattutto negli ultimi venti anni e soprattutto nell’ambito giuslavoristico, invocano norme a ogni piè sospinto, non penso tuttavia che sia necessario emanare norme ad hoc.
A me sembra che, perché possa essere considerato ammissibile un lavoro cui è collegata una dazione in denaro di importo minimo, bastino le regole civilistiche esistenti, alla luce delle quali si può “sottrarre” la somma erogata alla disciplina della retribuzione, ritenendola per l’appunto come strumento di sussidio al percorso formativo intrapreso dal soggetto; e considerare la prestazione come parte di tale percorso.
Gli strumenti di garanzia che potrebbero essere posti a presidio di un’ipotesi del genere dovrebbero essere quelli, prettamente civilistici, della stipula di una (chiara) convenzione che regoli tali forme di occupazione e ne espliciti la funzione educativa o riabilitativa del soggetto: in altre parole, un patto formativo produttivo di diritti e oneri, cui la persona decide di assoggettarsi; un’organizzazione del lavoro che escluda indubitabilmente l’orientamento lucrativo della prestazione resa; il fatto che il lavoro venga reso in favore della comunità e in funzione della riabilitazione del soggetto; l’assenza di una proporzionalità dell’importo con la misura della prestazione resa.
Il che potrebbe valere a scongiurare il rischio di forme di abuso e di sfruttamento della persona (peraltro svantaggiato), come talvolta accade anche nel Terzo settore.
Esiste poi nell’ordinamento uno strumento, che è quello della risposta ad interpello prevista dall’art. 9 del d. lgs. n. 124 del 2004, che assicurerebbe, nel caso in cui ovviamente sia accolta la prospettazione offerta in questo articolo, la tendenziale protezione da rischi di contenzioso. Per cui, le associazioni che adottano un tale modello educativo potrebbero utilmente sollecitare il ministero del Lavoro a pronunciarsi su di esso.
Una tale soluzione a mio avviso avrebbe il vantaggio di assicurare uno spazio di libertà, che consente di valorizzare i percorsi educativi e formativi che la creatività umana può immaginare e, per usare le parole dell’articolo 1325 del codice civile, meglio realizzare interessi meritevoli di tutela secondo dell’ordinamento.